Addio a Mario Guidi

La notizia è ormai di alcuni giorni fa, il funerale è stato celebrato ieri nella sua Foligno, e anche noi di Tracce di Jazz vogliamo ricordare la figura di Guidi, grande appassionato di jazz, critico per un decennio sulle pagine di Musica Jazz, manager di alcuni artisti di punta del jazz italiano nonchè padre di Giovanni, pianista ormai affermato e non solo sulla scena nazionale.

Non ho avuto il piacere di conoscere di persona Mario, lui qualche volta mi ha invitato a farmi avanti in quei festival che entrambi frequentavamo ma la mia timidezza mi ha sempre frenato . Ogni tanto ci si sentiva, sempre tramite social, lui sempre molto protettivo nei confronti dei suoi assistiti ma nel contempo sempre sereno e mai polemico nei giudizi.

Per dare una idea dell’uomo e delle sue idee precise e pungenti ho ripescato alcuni passaggi di una vecchia intervista che Mario diede a Fabio Ciminiera per Andymag, una testata web ora non più in linea.

Dal tuo punto di vista, la diffusione attuale del jazz ha cambiato il modo di “vendere” i concerti negli ultimi anni?

Oggi si ascolta jazz dappertutto – ad esempio in molti spot pubblicitari – anche se la maggior parte della gente lo ascolta senza alcuna consapevolezza. Gli appassionati sono diventati invece molto pigri e conformisti e, a mio avviso, se nel jazz italiano c’è poco ricambio, la colpa è soprattutto del pubblico che corre ai concerti dei grossi nomi e diserta poi tutti gli altri. D’altronde è veramente difficile orientarsi nell’ipertrofica offerta di proposte concertistiche e nella sconfinata produzione discografica. E la stampa specializzata non aiuta di certo, impegnata ad osannare qualsiasi vagito emesso da non importa chi. Fare booking è stato sempre complicato e oggi lo è più che mai: ci sono decine di agenti e centinaia di musicisti. La concorrenza è spietata e non sempre leale. Sono certo che molti agenti hanno ancora idee poco chiare su come debbono essere pagati contributi e tasse per i musicisti, soprattutto americani – e la crisi economica riduce notevolmente gli spazi di manovra.

E nei cosiddetti “luoghi deputati” del jazz?

Nei club va forte il mainstream, perchè in genere i gestori hanno pochissima voglia di rischiare con proposte innovative. I teatri hanno bisogno di nomi che possano riempire, visto che i contributi pubblici si stanno azzerando. I festival, tranne rare eccezioni, cercano anche loro di andare sul sicuro. Ci sono poi tanti piccoli festival che sono gestiti da musicisti locali, con l’aiuto del cugino assessore, che magari suonano 7 volte con 7 formazioni diverse oppure praticano il “ voto di scambio” con altri festival simili. Fotografare la situazione attuale è molto difficile, ma sono certissimo che non sono “i soliti noti” che stanno ostacolando l’affermazione dei nuovi talenti, bensì in gran parte i musicisti di cui parlavo poco sopra. Nel jazz le “sòle” durano poco: chi vale e ha voglia di lottare, alla fine il suo posto se lo ritaglia. Poi non è facile mantenerlo, ma questo è un altro discorso: purtroppo non c’è posto per tutti. Sono trent’anni che opero in questo settore e ancora devo conoscere un musicista che ammetta i propri limiti artistici: se uno non si afferma è colpa dei critici che non capiscono niente, delle lobbies, degli uffici stampa degli altri artisti (che nel jazz italiano sono però pochissimi ), di Rava e Bollani, mia che li rappresento e, alla fine, del destino cinico e baro.

 

 

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