So long, Lyle.

Era un giorno della fine degli anni ’80 ed, entrato in un negozio di dischi della mia città, avevo scelto per l’acquisto l’ultimo del Pat Metheny Group, poteva quindi essere “Still life (talking) oppure “Letter from home“. Avvicinandomi al banco, sento due ragazzi alle mie spalle che ironizzano su quella “musica da ascensore” che è diventata la musica della band. Si sa quanto elevata sia la conflittualità e la permalosità fra fans dei diversi generi musicali, ma quell’episodio mi spinse addirittura a non rimettere piede nel negozio per lungo tempo. Avevo seguito Pat Metheny fin dagli inizi, o meglio da “The first circle“, recuperando poi tutti i lavori precedenti, e continuavo a farmi affascinare da quelle immaginifiche e romantiche narrazioni articolate fra jazz e sud america, momenti elettrici ed acustici, ritmo e stasi, nonostante le recenti concessioni ad un lato più accattivante rispetto a vertici come “Travels“, solo di qualche anno precedente, ed il proliferare di quei vocalizzi che un pò mi risultavano indigesti. Di quella musica, Lyle Mays, scomparso pochi giorni fa a 67 anni a Los Angeles, era una delle due menti, insieme al chitarrista del Missouri. Incontratisi al Wichita jazz Festival nel 1975, Pat e Lyle, quest’ultimo figlio di musicisti e con esperienze nella band di Woody Herman, si ritroveranno un paio d’anni dopo con il progetto di un gruppo che, col tempo, diventerà un fenomeno mondiale, definendo uno stile unico e riconoscibile e conquistando platee ben più ampie del mondo del jazz, con la chitarra prodigiosa di Pat contrappuntata dalle complesse armonie ed incorniciata dagli impervi ritmi delle orchestrazioni di Lyle. Incideranno insieme oltre quindici album, i primi in duo, “Watercolors” (1977, ECM) e “As Falls Wichita, So Falls Wichita Falls” (1981, ECM), omaggio al luogo di quel primo incontro,  e gli altri con l’ensemble fino a “The way up” del 2005. Ma Lyle Mays, sebbene spesso oscurato dalla fama e dalla chioma di Pat, va ricordato anche per una carriera ed  alcuni album come titolare, dall’omonimo del 1986, con Bill Frisell, a “Street dreams” (1988) con un ampio ensemble comprendente Steve Gadd e Randy Brecker, fino a “Fictionary” del 1993 in trio con Jack Dejohnette e Mark Johnson, compagno di college e spesso fedele partner del pianista.

Lyle Lud

Troviamo proprio lui al basso in un lavoro che rimane l’unica testimonianza del quartetto allestito da Mays con il sassofonista Bob Sheppard ed il batterista Mark Walker, un concerto al Teatro Scala di Ludwisburg del 1993 pubblicato dalla Naxos anni dopo, nel 2016, che mi pare uno dei modi migliori per ricordare oggi l’arte del pianista. “Non c’era denaro per un grosso apparato da palco, tecnici, sintetizzatori ed attrezzature – racconta Lyle nelle note di copertina – eravano felici solo di potere suonare. Per me era una sfida suonare solo il pianoforte, perchè non ero abituato a quella situazione. Nonostante ciò, durante il tour, senza accordi preventivi, riuscimmo a sviluppare un’ ampia gamma di situazioni musicali differenti“. Un’esibizione da incorniciare, che inizia con una torrenziale “Fictionary“, introdotta da un solo del pianoforte che riassume, spaziando fra stili diversi, la storia e la sensibilità di Lyle Mays, e seguita da venti minuti di dialogo ad alta tensione e dinamicità fra i musicisti. Quindi l’omaggio a Coleman con “Either Ornette“, con estesi solo di Johnson, uno Shepperd chiaramente ispirato da Michael Brecker, ed il pianoforte di Mays che porta nel proprio mondo di eleganza ed invenzioni gentili, citazioni e frammenti di Ornette. E poi le stordenti scorribande brazil di “Chorinho“, esemplare  prova di capacità tecniche,  il blues di “Lincoln reviews his notes” con una introduzione virtuosistica del basso, le estese pieces post bop “Hard eights” e “Are we there yet?” , e l’unica concessione al catalogo Lyle/Metheny con  la celebre “Au lait”, e le sue nuances classiche dischiuse dal pianoforte.  Quasi due ore di musica senza una caduta di tono. “Quando venni a sapere della registrazione del concerto ero dubbioso, spesso i live i escono imperfetti, pieni di errori. Quando ascoltai i nastri rimasi stupefatto. Come era possibile? Avevamo suonato senza errori e con un carico di energia inesauribile. Era stata una notte magica e la performance era stata registrata in modo eccellente“.

 

1 Comment

  1. “…sento due ragazzi alle mie spalle che ironizzano su quella “musica da ascensore” che è diventata la musica della band. Si sa quanto elevata sia la conflittualità e la permalosità fra fans dei diversi generi musicali…” . Bei tempi quelli, quando la musica era ancora un’oggetto di passione e non di mero consumo….. Milton56

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