Michael Leonhart – Suite Extracts Vol.1

MICHAEL LEONHART ORCHESTRA
“Suite Extracts Vol.1”
Sunnyside / IRD

L’Orchestra del poliedrico trombettista e compositore newyorkese Michael Leonhart raccoglie discograficamente i frutti di una frequentazione assidua, partita nel 2016 e preceduta da “The Painted Lady Suite”, opera suggestiva i cui numerosi rimandi possono evocare celebri e gloriosi band leader-compositori del passato come Gil Evans, o accostarsi alle migliori produzioni attuali, come quelle di Maria Schneider.

Ci pare doveroso però fare un passo indietro e segnalare come Michael sia a tutti gli effetti un figlio d’arte, il padre Jay Leonhart (classe 1940) è un fior di bassista ancora sulla breccia, uno showman (suggeriamo il  canale youtube che sta usando per gabbare la quarantena) che ha tentato la fortuna anche come valente cantante e compositore di canzoni, con uno stile apparentato a Dave Frishberg e Randy Newman, mettendo poi lo zampino in innumerevoli situazioni e in chissà quante sale d’incisione, lavorando con giganti del jazz come Mulligan, Phil Woods, Thad Jones e Mel Lewis, trovandosi sempre a suo agio sia se si trattasse di suonare con Frank Sinatra o con Ozzy Osburne. Insomma un bel tipo, i cui cromosomi non sono andati sprecati vedendo la notevole carriera del frutto dei suoi lombi (agevoliamo di seguito un divertente brano di Jay tratto da un Dmp del 1983).

Le egide entro le quali Leonhart (Junior) si muove sono anch’esse piuttosto variegate, in fondo non molto distanti dalle traiettorie paterne, infatti dopo una partenza a razzo con un Grammy già incamerato nel 1992 (a 17 anni!) il nostro ha raggiunto il successo con gli Steely Dan e poi, sempre più richiesto, si è buttato a capofitto in una serie di produzioni importanti, lavorando con Bruno Mars e Caetano Veloso, Wynton Marsalis e Natalie Merchant, giusto per fare quattro nomi.

Quello che è venuto maturando nell’ultimo lustro con i dischi a proprio nome (MLO Orchestra) è però un compositore di alto livello e dalle idee molto  chiare: opera con un vasto roster di musicisti provenienti, manco a dirlo, dalle più disparate esperienze, e con carriere alla spalle e gradi di popolarità ben diversi ma con alcuni sapidi tratti in comune, tutti abituati a lavorare in ensemble di media grandezza e pronti a buttarsi armi e bagagli in un’avventura musicale che richiede entusiasmo, e un po’ di sana incoscienza, visto l’ampio spettro musicale in cui Leonhart intende muoversi. Ecco così che il sax di Danny McCaslin, la chitarra di Nels Cline o la batteria di Eric Harland si mettono al servizio di composizioni ed arrangiamenti griffati “MLO”, brillando sia in sezione che negli spunti solistici, sospinti da una stimolante big band che si muove  compatta e mantiene un’alta carica di vitalità e spontaneità anche quando lavora su canovacci e tessiture studiate con cura certosina (e poi dosate nei giusti alambicchi durante la produzione).

Si prenda il primo brano in scaletta, “Alu Jon Jonki Jon” di Fela Kuti, un estratto da “AfroBeat Suite” che, come le altre suite leonarthiane messe sotto il riflettore in questo disco verrà forse pubblicata integralmente in futuro, un brano che viene sottoposto ad un potente arrangiamento funky in cui fa capolino anche Chris Potter (presente solo in due brani), un classico killing tune con funzioni di “sigla” per scaldare l’auditorium, un po’ come si usava ai tempi belli, quando navi/orchestre come questa solcavano il mare aperto del jazz, regalando capolavori e divertimento coram populo.

Si diceva dell’innato ecclettismo di Michael Leonarth, che riesce nella difficile arte di bypassare i generi nel rispetto delle tradizioni attraversate, un modus operandi che si palesa compiutamente nel medley che coinvolge l’heavy rock di “Big Bottom”, nel cui bel mezzo viene calata niente meno che la colemaniana “Lonely Woman”, che McCaslin griffa con classe (estratto da “The Spinal Tape Suite”).

Come avrete intuito non c’è proprio rischio d’annoiarsi di fronte al repertorio, peraltro ricco di suggestioni cinematografiche, ed in cui convivono il vellutato blues di Howlin Wolf (“Built for Comfort” da “The Chess Suite”, altra suite che attendiamo per intero) e il collettivo rap Wu-Thang, una “fissa” del leader, che guida il complesso con mano sicura e piglio baldanzoso, giungendo ad un’arcana e sorprendente omogeneità.

(Courtesy Of AudioReview)

 

 

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