E’ una storia che inizia da lontano questa…. Siamo alla metà degli anni ’70, largocirca. E’ un’epoca in cui le discoteche si misurano ancora in centimetri lineari, non certo in metri, e neppure in Megabyte o Terabyte. E’ un’era in cui un LP d’importazione equivale ad otto/nove cinema in meno….un sacrificio non da poco, considerati i film in circolazione allora. Un tempo in cui i titoli si sceglievano dopo molte cogitazioni e consultazioni, sempre sperando di avere i riflessi (e l’incoscienza dissipatoria) abbastanza pronti da arraffare una delle poche copie in circolazione.
Era un’epoca di musica rovente, densa sino all’impossibile, perfettamente in linea con il ‘sentimento del tempo’. Eppure sul mio scaffale c’era una piccola nicchia del tutto particolare, dove si poteva trovare una cosa così:
L’antidoto a tanto Coltrane, Shepp etc. si potrebbe dire di primo acchitto. Aggiungiamoci un po’ di quella vena di settario spirito di contraddizione che è il sale ed il motore della passione jazzistica…. Certo che il cenacolo tristaniano di cui sopra facilmente si prestava già alla fine degli anni ’40 ad esser giocato come il ‘controcanto’ dell’irruente e trionfante (per poco) Bebop in quel pendolare gioco di antitesi che sino a qualche decennio fa ha scandito storia e ricezione di questa musica. Il ‘Cool’: più che uno stile od una scuola musicale rappresentava una sorta di fata morgana, già a partire dalla parola, una di quelle sostanzialmente irriducibili ad una sia pur approssimata traduzione e che quindi misurano i gap più incolmabili che corrono tra culture diverse. O che almeno correvano prima che il mondo diventasse sempre più una specie di supermarket planetario insonne ed omologato. Che poi al Gran Maestro Tristano l’etichetta risultasse incomprensibile, ed anche un tantino fastidiosa, poco importa: anche se l’ascetico Lennie ebbe a dichiarare che quello suo e dei suoi era solo ‘un altro bop, solo un po’ diverso’, i Guelfi ed i Ghibellini del jazz erano già scesi in campo armati gli uni contro gli altri. E l’asso nella manica dei compassati e benpensanti ‘coolsters’ non poteva non essere il Konitz dal suono diafano e chiaro, e soprattutto capace di una ‘musica orizzontale’ fatta di lunghissime linee melodiche in cui erano minimizzate le drammatiche escursioni dinamiche di parte avversa. Che poi la chiarezza del tono avesse molto in comune con quella del Parker più sereno e maturo, che la supposta apollinea ‘clartè’ attribuita al cenacolo tristaniano confinasse con una certa trasparenza e leggerezza di qualche delfino parkeriano (Miles Davis, giusto per non far nomi), erano tutte trascurabili sottigliezze.
Il Maelstrom è del 1953, ma è rimasto sepolto nelle profondità dell’oceano sino ai tardi anni ’70, quando il leggendario vortice è riapparso in Giappone. Non esattamente musica da cocktail party, no?
Già all’epoca mi sfuggiva cosa ci potesse essere di rassicurante nella musica tristaniana, un inquietante planetario lambito da una profonda oscurità da cui balenavano improvvise premonizioni di un futuro tutto di là da venire, che con il ‘ritorno all’ordine’ nulla aveva a che fare.
Esser parte di un cenacolo, anzi diciamo pure di una setta esoterica è senz’altro una lusinga per un giovane talento. Ma il misantropico separatismo tristaniano esigeva un prezzo duro da pagare, quello di un’ascetico isolamento privo di immediate filiazioni ed influenze nell’ambiente musicale circostante. Una cristallina esemplificazione di questa dura verità si può trovare nella penombra appartata in cui si è sempre mosso un’autentico ‘fratello separato’ di Lee, l’indimenticabile (eppur dimenticato) Warne Marsh. I famosi unisoni dei due suonavano quasi inquietanti per la loro iperrealistica perfezione, che in tempi successivi e più tecnologicamente avanzati avrebbero potuto suscitare il sospetto di un virtuosistico overdubbing di due tracce dello stesso musicista. Lasciata all’amico Warne la scomoda eredità del precursore ‘vox clamantis in deserto’, Konitz evade presto dalla cripta tristaniana per seguire la sua vocazione, una vita all’insegna di quella che potremmo chiamare ‘l’Arte dell’Incontro’.
1955, Lee già ‘vede la luce’. Marsh è un fratello, Billy Bauer un adepto, ma Oscar Pettiford e Kenny Clarke sono senz’altro ‘infedeli’. Notare unisoni e contrappunti pressocchè simbiotici.
L’estroverso dinamismo di Konitz è sempre guidato da un’attenta ricerca di affinità, ma le esplorazioni procedono per cerchi sempre più eccentrici. Gerry Mulligan, Bob Brookmeyer, ma dopo già si nota un’eretico come Jimmy Giuffrè, nelle cui trame raffinate e già tendenzialmente oblique la voce limpida e luminosa di Konitz si incastona alla perfezione. Qualcuno potrà osservare che qui ancora si respira un’atmosfera ‘third stream’ che in termini di rarefazione e controllata intellettualità si pone su di una lontana linea di discendenza tristaniana: ed alla fine degli anni ’50 intorno comincia a spirare ben altra aria….
Una copertina azzeccata e rivelatrice di un’atmosfera di incipiente indeterminazione
E’ il 1961, con ‘Motion’ cominciano le vere avventure….. Per i bizzarri asincronismi cui ci costringe la capricciosa discografia jazzistica, ho messo le mani su questo disco (così come su altri che seguiranno) solo pochi anni fa. Può non esser un male, anzi, purchè si ascolti con ben stampata in testa una chiara mappa orientativa che collochi propriamente la musica in cui ci si imbatte tra le onde del caso. Con nelle orecchie l’ebbrezza dei millanta paesaggi sonori degli ultimi anni a qualcuno può anche sembrare che qui si sia ancora in salotto….. può anche essere, ribatto io, ma negli angoli più in penombra, quelli dove si cospira. Qui la trama della musica di Konitz si dilata in maglie sempre più larghe, riempite sempre più vistosamente dall’insinuante e pulsante basso di Sonny Dallas e soprattutto dal tempestoso ed indomabilmente energetico drumming di Elvin Jones, allora fedelissimo di un Coltrane che stava per toccare l’apogeo della propria tensione espressiva. In apparenza sembra che Lee ‘giochi in casa’, l’album è fitto di quegli standard che saranno sempre il suo cavallo di battaglia, ma affiora una crescente inclinazione all’astrazione: del resto per lui gli ‘evergreen’ saranno sempre un po’ delle ‘icone’, dove il soggetto principale ‘obbligato’ conta meno del dettaglio rivelatore, delle immagini che trascendono sé stesse come quelle dell’arte sacra medievale. Alle lunghe linee sta subentrando un fraseggio sensibilmente più nervoso ed increspato, ed anche Il sound – che è la ‘firma’ del jazzmen, non dimentichiamolo – comincia a ‘riempirsi’
Un mosaico di multipli warholiani: ma non è New York, è la Roma degli anni ’60…
Non si incontrano solo persone, ma anche luoghi. Konitz ha frequentato l’Europa sin da tempi non sospetti, ma se nei ’50 ha seminato nei paesi del Nord, particolarmente in Germania, nel classico ruolo del ‘maestro americano’ in missione di evangelizzazione, qui lo troviamo in una situazione ben diversa. La Roma del 1968 è ancora un’ ‘angolo del mondo’ dove succedono cose, e soprattutto si hanno le orecchie ben tese sulle musiche più lontane. Ed infatti da questo ‘Five, four and three’ e soprattutto dalla distesa e vibrante introduzione di piano di un giovanissimo Franco D’Andrea si capisce che sono successe molte cose. Anche i luminosi e dinamici ‘tutti’ successivi con Enrico Rava, Giovanni Tommaso e Gegè Munari ci parlano di una sotterranea gestazione che di lì a poco darà frutti nuovi. Anche in un contesto di gruppo apparentemente convenzionale, si riconferma la refrattarietà di Lee al classico ruolo di Leader (maiuscola intenzionale, non refuso) che pure è stato a lungo cruciale ed imprescindibile nel jazz. A parte alcuni ‘incontri’ particolarmente ricorrenti a testimonianza di affinità elettive spesso insospettate, non è infatti dato ricordare un ‘gruppo’ di Konitz, una formazione stabile plasmata intorno a lui e da lui… Un handicap? Forse no, in fondo anche Sonny Rollins è sfuggito a in parte a questo destino, soprattutto rifiutando di raccogliere la bandiera di ‘guida carismatica’, di caposcuola. Forse nel caso di Lee si può parlare di presentimento della fine di un’era, quella degli ‘stili’ e delle ‘scuole’ con nome e cognome, e l’inizio di una nuova, quella dei ‘clerici vagantes’, dei maestri zen che esercitano una sorta di influenza sapienziale trasmessa per sottile osmosi più che chiamare ad una fede attivamente predicata.
1975, ‘Satori’: eccole le ‘affinità elettive’….
Lo Zen, appunto: ‘Satori’ è un’illuminazione momentanea che porta l’osservatore a fondersi, ad immergersi in cio’ che viene osservato, una comprensione per immedesimazione. Qui in questo processo fusionale reagiscono con Konitz Martial Solal al fender rhodes (mirabilia degli irripetibili ’70), Dave Holland e Jack Dejohnnette che portano doni esotici ben evidenti. La musica di Lee si dilata sin quasi ad una tendenziale smaterializzazione, un ricamo sottilissimo che però può intrecciarsi con un ordito certo estroso ed eccentrico, ma anche intricato e felicemente complementare. Un momento magico, in futuro non sarà sempre così. L’apertura alla musica del mondo e del tempo è massima, per me forse un vertice.
Ma molti ‘dopo’ coincidono spesso con dei ritorni. 1977, un altro ‘gorgo’, che ne rivendica deliberatamente uno di decenni prima.
Ma qui al piano c’è un Bill Evans che vive inconsapevole la sua ‘indian summer’ (ci lascerà nel 1980). La sua lucida determinazione a far a pezzi un clichè di acquerelli impressionistici che alcuni avrebbero voluto cucirgli addosso genera un ‘Night and Day’ che oscilla tra tersi e rarefatti contrappunti a cappella dei fratelli ritrovati Lee e Wayne ed una ripresa elettrica ed scintillante di Evans e dei suoi. Ritorno sì, ma in una casa dove mobili ed atmosfere non sono più quelli di una volta. Per fortuna questo piccolo gioiello di inquietudine l’ho acciuffato a tempo debito.
Dopo sono seguiti molti altri anni pieni di concerti, tourneè, registrazioni: queste veramente in gran quantità, troppe per esser sempre imprescindibili, spesso gli incontri erano solo occasionali e dovuti alle coincidenze generate dalla grande macchina che teneva in perpetuo movimento la ‘musica della diaspora’ degli anni ’90. Nel mio personale taccuino c’è anche qualche ricordo di alcune serate un po’ opache. Da questo grande caleidoscopio di occasioni ognuno può trarre qualcosa che stimoli in lui una risonanza speciale. Ma il jazz è anche una musica crudele, una musica che non perdona l’inadeguatezza di risorse fisiche in naturale declino ad ambizioni creative e difficoltà tecniche ormai fuori portata. Senza contare che spesso gli ‘incontri’ possibili e probabili cominciano non rivelare più le affinità elettive del passato, anzi…. E’ il caso dell’ultimo concerto che ho ascoltato un paio di anni fa, una pagina che ho strappato di netto e senza esitazioni dal libro della mia storia con Konitz. Alcuni sopperiscono con il professionismo che consente di prolungare una decorosa routine, ma credo che il ‘mestiere’ non sia mai stato arnese che rientrasse nel bagaglio del viaggiatore Konitz. E così preferisco far scorrere i titoli di coda dl mio film personale su di una inquadratura ancora vivida, intensa e soprattutto somigliante. Questa:
‘What is this thing called love’, 1996, Brad Meldhau, Charlie Haden
Quanta Fortuna, che Tu mi abbia trovata.
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P. S. Ho già iniziato a perdermi, ritrovando ovunque frammenti di me 🙂
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