La notte del 5 aprile 2020 i discografici delle principali etichette italiane, gli amministratori delegati di diciotto grandi radio e i manager di una decina d’artisti di successo si sono dati appuntamento in un bunker segreto in zona Machiachini, a Milano. Sfidando il lockdown, i controlli delle pattuglie della polizia locale e le telecamere di Live – Non è la D’Urso, hanno bussato alla porta di un finta cabina armadio della Tim. Dopo aver pronunciato la parola d’ordine “Musica e il resto scompare”, sono stati accompagnati lungo una ripida scala a chiocciola fino a una rete sotterranea di uffici che collegano segretamente le sedi di Sony e Universal. Lì hanno parlato di radio, canzoni italiane e lockdown.
«Le dirette Instagram stanno abituando il pubblico a un livello qualitativo bassissimo», ha detto compiaciuto un discografico di cui non possiamo rivelare il nome. «È una pacchia. Dobbiamo cogliere al volo questa opportunità. Non possiamo permettere che le persone tornino ad ascoltare bella musica». «Sapete qual è il problema? La gente fa confronti con i dischi del passato e si deprime», ha ammesso il potentissimo patron di un network radiofonico, carezzando un gatto persiano. «Io lo so che cosa dobbiamo fare», ha detto balzando in piedi un giovane dirigente, colto da improvvisa illuminazione. «Dobbiamo cancellare il passato una canzone alla volta. L’idea è questa: facciamo finta di celebrare i classici della canzone italiana, mentre in realtà ne produciamo versioni così brutte da renderli odiosi al pubblico».
L’operazione I Love My Radio è nata così. Presentato come un modo per festeggiare i 45 anni del sistema radiofonico – un alibi piuttosto debole che ha rischiato di mandare all’aria l’intera operazione: chi mai festeggia i 45 anni di qualcosa? – il progetto prevede che dieci celebri artisti italiani distruggano volontariamente altrettante canzoni entrate nell’immaginario collettivo e che tali brutture vengano trasmesse in modo ossessivo dalle radio di tutto il Paese. In attesa dell’ultima cover, che sarà cantata dalla coppia padre-figlio formata da Massimo Ranieri e Tiziano Ferro, ricostruiamo le tappe di questa magnifica avventura nel cattivo gusto.
Per una volta il magazine Rolling Stone è riuscito a pubblicare un articolo ironico che, tra le righe, dice scomode verità. Un merito notevole, sopratutto perchè viene da una rivista mediamente poco interessante e di contenuti fin troppo leggeri per un appassionato di musica, a prescindere dal genere.
A questo punto mi immagino la domanda del lettore medio: va bene, ma a noi jazzofili che ci importa ? Eh bè, direi che ci sono similitudini fin troppo evidenti. Provate a pensare a quante noiose versioni “in jazz”di brani di Lucio Battisti abbiamo dovuto sopportare in anni e anni di “omaggi” che non hanno praticamente risparmiato nessuno e tantomeno la memoria di coloro che non ci sono più. Sembra che una quota di musicisti “jazz” sia in perenne contatto con le onoranze funebri, pronti a disputarsi le spoglie del cantante o cantautore di turno che passa a miglior vita.
Mancano all’appello solo i tributi a Cristina D’Avena e a Topo Gigio, ma sicuramente qualcuno in questo momento ci sta lavorando. E naturalmente si tratta di una colossale fregatura. Le eccezioni ci sono, ci mancherebbe, ma si contano sulle dita di una sola mano. Il turlupinato in questa vicenda di tributi è sempre il pubblico, spesso trattato alla stregua del parco buoi. Direttori artistici (sigh) con l’occhio agli incassi e musicisti a corto di idee sono una miscela esplosiva.
Pubblico di bocca buona si trova ovunque e facilmente, e cosi’ si innesca un colossale equivoco: far credere ai boccaloni che con 10 secondi di sax o una rullata di batteria anche Bocca di Rosa è equiparabile ad un qualsiasi brano del songbook americano. E già, quante volte l’ho sentito con le mie orecchie, perchè My Funny Valentine si e Il tempo di morire no ? Mediamente le canzoni italiane per diversi motivi poco si prestano, non a caso nel repertorio dei jazzisti di tuto il mondo figura Estate di Bruno Martino e….basta. Ma comunque, anche volendo inserire una ballata nostrana, è poi il modo di sviluppare il brano che fa la differenza. Una banale jazzificazione fatta sostituendo la voce con uno strumento e qualche svolazzo di pianoforte o tromba serve a ben poco, se non, appunto, a soddisfare un pubblico poco incline ed un cassiere avido e a far rimpiangere l’originale all’ascoltatore smaliziato .
In questo frangente temporale lo scomparso di turno è Ennio Morricone. Ovunque, anche nei festival jazz, si legge di “omaggi al maestro”. Che se potesse parlare, credo proprio che adatterebbe la sua frase di congedo: “Non disturbatevi…”
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