FANO JAZZ BY THE SEA, LA GIOIA DI SUONARE (ANCORA).

Il grado di civiltà di una comunità è ben misurato dai suoi teatri… ecco quello Della Fortuna di Fano, in attesa di ‘Love in Translation’

Frequento questo festival – di cui a torto si parla poco – ormai da tre estati, ma l’edizione di quest’anno mi ha veramente stupito sin dal primo apparire del suo programma. Praticamente la sua struttura e la sua impaginazione sono pressocchè identiche a quelle delle scorsa edizione, con l’unica differenza che questa è stata ‘riscritta’ in corsa ed ex novo non appena si è aperto un minimo, incerto spiraglio di fattibilità dopo la quarantena, cioè poco più di 40 giorni fa (sic!). Sentiti complimenti all’inossidabile Adriano Pedini, direttore artistico, al suo staff ed alla comunità fanese che ha tenuto botta preservando la sua ricca vita collettiva e culturale molto meglio di altre sedicenti ‘metropoli’ troppo intente a parlarsi addosso.

Ovviamente Fano ‘reloaded’ ha dovuto rivolgersi quasi esclusivamente alla scena italiana (con un paio di eccezioni, però), con il risultato di proporre un’ampia e stratificata immagine della nostra scena jazzistica odierna, opportunamente incastonata nelle varie sezioni e filoni (espliciti ed impliciti) in cui il festival si articola.

love-in-translationover

Ma cominciamo con la musica. L’apertura del Festival era riservata a Rosario Giuliani ed al suo ‘Love in Translation’, un ritorno dell’altoista a più di venti anni dal suo esordio proprio qui, immediatamente dopo la vittoria nel primo concorso ‘Massimo Urbani’: un emozionato Giuliani ha ricordato che quella sera precedette sul palco Phil Woods, uno dei suoi idoli, in un debutto che dovette fargli sudare freddo. Parentesi: Fano Jazz by The Sea crea evidentemente un legame sentimentale con i musicisti che ospita, e non solo con quelli italiani, un atout nient’affatto trascurabile di questi tempi, quando si tratta di metter insieme un cartellone di livello internazionale (lo vedremo nel 2021, quando si cercherà di riproporre tal quale il luccicante programma originariamente concepito nell’Era Ante COV19). Viene brillantemente scansato in Zona Cesarini un altro colpo basso della fortuna: l’incombente minaccia di temporali porta ad un’immediata riprogrammazione del concerto nei lussuosi e protetti spazi del Teatro della Fortuna, un gioiello secentesco da secoli accuratamente preservato dai fanesi.

Alle spalle del concerto stava ovviamente il repertorio dell’album ‘Love in Translation’, con un’importante (e forse incisiva) variazione: al posto del vibrafono di Joe Locke (ovviamente confinato nella sua tormentata Isola America) era di scena il pianoforte di Pietro Lussu, ma il basso elettrico di Dario Deidda e la batteria di Roberto Gatto erano ancora al loro posto. Personalmente nutrivo una certa attesa per questa sessione, anche per far migliore conoscenza di Giuliani che da ultimo ho frequentato poco, lacuna non indifferente per un amante del sax alto come me.

Il gruppo si presenta con immagine sonora molto levigata e smussata, con il sax di Giuliani velato e perlaceo, immune dell’acutezza tagliente e della agilità di fraseggio proprie di molti altri altoisti. Le risorse strumentali e musicali del leader sono fuori discussione: abbiamo ascoltato pregevoli finezze come sottili ed impeccabili tremuli, il timbro mantiene invariabilmente la sua caratteristica personalità in tutti i momenti, il fraseggio è contraddistinto da una grande trasparenza e fluidità, che si mantiene anche in misuratii ed omogenei ‘legato’. Ma ad onta della grande eleganza e raffinatezza della presentazione, delle indubbie qualità strumentali della formazione, della ricchezza dei materiali proposti (si spaziava da temi di Elvis Presley ad un’elaborata riscrittura del celebre Trenet di ‘Que reste-t-il de nos amours’, senza tralasciare l’omaggio di prammatica allo scomparso Morricone – e qui lascio la parola all’amico Rob73), questa musica difettava un po’ di quel coinvogimento emotivo che soprattutto uno strumento come il sax alto normalmente induce anche negli ascoltatori più smaliziati. Il bravo Lussu si accolla l’ingrato compito di sopperire alle risorse timbriche e di fraseggio di uno strumento tanto diverso dal suo come il vibrafono, affiancando e sostenendo con discrezione ed eleganza il suo leader, ma rimanendo un po’ sottotraccia anche nei momenti solistici, in cui sembra proseguire il discorso di Giuliani. Questo genera quell’effetto di una certa uniformità un po’ appiattente che determina la bassa temperatura emotiva del set. Il basso elettrico di Deidda combatte un po’ per trovare un suo rilievo negli ampii spazi sonori del Teatro della Fortuna, e poi si amalgama con omogeneità e funzionalità nel sound complessivo del gruppo, complice anche la grande difficoltà di dare al suo suono la cifra personale e distintiva del jazzmen ad uno strumento che resta essenzialmente ‘di potenza’. La scansione misurata e trasparente della batteria di Gatto risulta invece pezzo pregiato del sound di gruppo, contribuendo non poco all’immagine di sottigliezza e precisione offerta dalla band. Insomma, se il jazz ‘è un graffio sull’anima’, come diceva il grande Nat Hentoff, qui sull’anima ci si è soffiato sopra un po’ di lontano e con una certa delicatezza.

Ma le giornate successive di Fano non saranno affatto avare di ‘scorticature’…. Quindi ‘stay tuned’, come al solito (continua). Milton56

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.