FANO JAZZ, 4 – LUCI DELLA RIBALTA

Ed eccoci sul main stage di Fano Jazz, la Rocca Malatestiana. A testimonianza della buona semina fatta nei lunghi anni di vita, ed ad onta di Cov19 e relativi distanziamenti, l’ampia platea ha visto sempre presenze folte, e talvolta anche molto folte. Merito del fatto che questo festival non ha un solo pubblico, ma ne ha diversi, cosa che lo rende in qualche modo policentrico, caratteristica preziosa per abbracciare la scena odierna. Peraltro niente sbracature che si vedono altrove: il livello di qualità musicale è sempre alto, ma ci sono serate ‘ad alto voltaggio’, ed altre a luci dolcemente soffuse.


Alla seconda categoria appartiene il Paolo Fresu in duo con Daniele di Bonaventura. Le radici locali di quest’ultimo e l’assidua presenza di Fresu a Fano negli ultimi anni creano un ‘sold out’, con una platea che scintilla di parecchi lustrini mondani: testimonianza di un profondo rapporto del Festival con il complesso della società fanese, che anche sotto altri profili rivela un’invidiabile vitalità culturale. Quanto alla musica, beh, in tutta sincerità questo Fresu (ce no sono parecchi ormai….) che definirei ‘di gala’ non è esattamente ‘my cup of tea’, come dicono gli inglesi: musica impeccabile sono il profilo esecutivo, molto elegante charme…. ma l’urgenza e la tensione che, comunque declinate, fanno l’essenza del jazz e di tutte le sue numerose diramazioni abitano altrove, compreso nel rispolverato Re-Wanderlust, ennesima reincarnazione del proteiforme Paolino: ascoltato a Grado con ospite Filippo Vignato, ve ne sarà reso conto ‘prossimamente su questi schermi’.

Un duo travolgente………

Fabrizio Bosso e Luciano Biondini. Sono entrato temendo un’impatto simile a quello del Fresu di cui sopra, invece è stata sorpresa. Il primo articolo di questa serie s’intitolava “La gioia di suonare. (Ancora)”: un titolo che mi è venuto fuori di getto proprio pensando a questa performance. “Bosso fa paura”, cito a braccio uno che la tromba la maneggia da un po’, Enrico Rava. E’ quello che mi è venuto in mente non solo di fronte alla prodigiosa ed annichilente padronanza strumentale di questo ulteriore campione torinese, ma soprattutto di fronte alla sua inestricabile funzionalità ad un flusso torrrenziale e caleidoscopico di idee musicali sempre diverse: il tutto mosso da una passione incontenibile che rendeva stretto il grande palco per un duo dove il bravo Biondini aveva il suo da fare per dialogare ed arginare il trombettista. Superflue le sincere parole di Bosso circa la valenza liberatoria del ritorno sul palco dopo la quarantena e la cupezza de suoi silenzi, la musica fresca, immediata e comunicativa parlava già da sé della passione ritrovata. Inaspettatamente anche qui gran concorso di pubblico, qui però molto assortito e coinvolto.

La Cosmic Renaissance in formazione lievemente diversa da quella apparsa a Fano


Cosmic Renaissance di GianLuca Petrella. Un tantino volontaristica e più che altro sentimentale la rivendicazione dell’eredità di Sun Ra. Nello smagliante ed energetico cosmo elettronico di Petrella e dei suoi mancano le inquietanti e destabilizzanti fessure che fanno balenare dimensioni di realtà parallele ed alternative alla Philip K.Dick, che viceversa caratterizzano la musica dell’enigmatico (ed incompreso) timoniere dell’Arkestra. Una cosa Petrella però condivide con Ra: la discreta, ma salda mano con cui dirige il suo ensemble, indirizzandolo con tempestività sin dai momenti iniziali in cui imposta sul suo sintetizzatore le sequenze destinate ad indirizzare e plasmare un unitario sound di gruppo: qualche spazio individuale si schiude al solo trombettista Mirko Rubegni, che riesce a piazzare qualche sortita dove spesso il suo strumento funge più da interfaccia per le elettroniche collegate, che non di rado restituiscono un suono molto vicino a quello del trombone di Petrella, con una sorta di singolare effetto di clonazione Del resto questo è il coeso controcanto indispensabile a bilanciare il pirotecnico protagonismo solistico del leader: anche qui dal suo trombone scaturisce un getto di passione travolgente che dà il la ad una musica essenziale e vitalistica, un flusso che raccoglie una serie di suggestioni sonore che devono riuscire familiari al pubblico relativamente giovane che infatti segue con entusiasmo e calore il concerto della Cosmic Renaissance. La quale a questo punto può quindi rappresentare un’utile introduzione a musiche più articolate e sofisticate di quelle di ascolto corrente. Siano quindi avvertiti quindi i ‘gufi jazzfan’ che è comunque superfluo e sbagliato andare alla ricerca di interplay e dialettica interna ad un gruppo che punta ad offrire un’ora abbondante di divertimento energetico, ma a suo modo raffinato. Però resta altresì inteso che Il Petrella sperimentatore abita altrove.

I fascinosi e seduttivi Crossing di Enzo Favata…

Il direttore artistico Pedini ha presentato i ‘Crossing’ guidati da Enzo Favata (lui al sax soprano, Pasquale Mirra al vibrafono e marimba, Rosa Brunello al basso elettrico, Marco Frattini alla batteria ed elettronica), soggiungendo di aver faticato non poco a sottrarre il gruppo a sue ricorrenti tourneè internazionali, soprattutto nell’Estremo Oriente. E bene ha fatto, perché a mio avviso la performance di questa formazione è stata il punto più alto del festival, sia sotto il profilo della qualità musicale che dell’impatto emotivo.
Anche qui, e nonostante la presenza di spiccate e riconosciute individualità, si punta ad un sound di gruppo omogeneo, anche se ampiamente articolato. Nuovamente è l’elettronica ad avere gran ruolo nella tessitura di un vasto arazzo ricco di mille colori cangianti in cui inizialmente la musica si distende con sviluppi lunghi come un’onda di marea, con lente progressioni che crescono d’intensità: in questa fase di accumulazione sonora spiccano per efficacia i riffs di Rosa Brunello al basso. Solo gradatamente e con calcolata parsimonia emergono interventi solistici del soprano di Favata, che si colloca su di un registro estaticamente affabulatorio anche grazie ad un suono morbido e fluido, oltre che filtrato da angolosità ed asprezze. Quando l’onda della musica di gruppo sembra aver raggiunto per inesorabile accumulazione il vertice della sua intensità, improvvisamente ecco uno scarto che schiude una nuova dimensione di leggerezza ed apertura: è il vibrafono di Mirra che irrompe aereo ed iridiscente, conducendo quasi suo malgrado il gruppo verso la contemplazione di lontananze esotiche con la stessa ‘meraviglia del mondo’ tipica di tanti esploratori musicali dei primi anni ’70 (un flashback che è balenato frequentemente nei momenti più felici ed intensi di questo festival…). Insomma, Mirra può pure entrare in punta di piedi ed in spirito di servizio in tante situazioni musicali diverse, ma alla fine da fuoriclasse qual è (inutile stare a lesinare sulle parole) imprime sempre un’impronta decisiva ai gruppi a cui partecipa: e qui ha portato Crossing all’approdo all’ incantatorio ‘Brown Rice’ dell’amato Don Cherry, un approdo logico e non retorico che ha rivelato l’anima più profonda della creatura di Favata, coinvolgendo attivamente il pubblico in uno dei concerti più raffinati e caldamente emozionanti di quest’estate.

Alla fine si lascia la vivace e curiosa Fano con la rassicurante certezza che lontano dalle scontate vetrine del glamour ci sono ancora tanti veterani che non hanno tempo per suonare alla maniera di sè stessi e riescono a comunicare la loro febbrile passione a molti giovani talenti che hanno il coraggio di incamminarsi su di una via accidentata e che punta verso orizzonti incerti ed aleatorii. Il miglior augurio che possiamo fargli per questo lungo ed incerto inverno che si avvicina è quello di trovare un palco per farci arrivare la loro musica: ancora una volta, tocca anche a noi far si che questo sia possibile… Milton56 

Eccolo, il ‘riso bruno’ di Don Cherry: la ‘meraviglia del mondo’ che ancora resiste nello sguardo dei Crossing…

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