Christian Scott aTunde Adjuah – Axiom

Gli assiomi sono, sostanzialmente, postulati sui quali è basata una struttura definita, proposizioni che si assumono vere e servono come punto di partenza per ulteriori sviluppi argomentativi. E’difficile trovare un’esemplificazione più appropriata della correlazione fra il jazz e la expansive music…..specialmente in un concerto“. Per chi ama le speculazioni filosofiche in campo musicale, Christian Scott aTunde Adjuah, da New Orleans, nipote del sassofonista Donald Harrison, Jr , una ragguardevole carriera nel mondo del jazz con dodici album all’attivo, fiero portatore, come gli antenati, del titolo di Chieftain nella tradizione dei Black Indians, movimento che rivendica le origini africane dei nativi americani, risulta una fonte inesaurible di stimoli teorici . Eccone un altro tratto dal suo sito nella sezione dedicata alla spiegazione della sua creatura più accudita, la stretch (o expansive) music, ovvero un jazz dilatato ad inglobare diverse ed innovative forme come il trip hop.

Ricordo che una sera a New Orleans, dopo un concerto, discutevo con un gruppo di anziani musicisti che lamentavano, nella musica della mia generazione, l’assenza della ritmica swing e del fraseggio bebop . Loro pensavano che ciò che stavamo suonando non potesse essere considerato jazz. Allora chiesi se considerassero musicisti jazz King Oliver, Jelly Roll Morton, Kid Ory, Baby and Johnny Dodds, o Pops “Certo” risposero. Io allora replicai che in base a quel punto di vista nessuno di quesi musicisti dovrebbe essere considerato jazz, in relazione al contributo fornito allo swing ed al bebop. E chiesi se avessero considerato che il modo di confrontarsi con gli stessi elementi basilari del jazz da parte delle giovani generazioni potesse semplicemente essere meno lineare ed organizzato in modo differente da come erano abituati a ad ascoltare. Ma ognuno rimase della propria opinione, ed il loro ragionamento ritornava sempre al termine jazz, ed alla sua definizione o descrizione. Si tratta in realtà di due concetti molto diversi, perchè definire qualcosa significa circoscriverla entro i confini della spiegazione, mentre una descrizione intende suggerire l’identità di un’esperienza attraverso le sue principali caratteristiche. Così, definire il jazz implica separazione, esclusione ed ostacolo alla crescita. Nel mio pensiero è la libertà che caratterizza il jazz ed ha donato nuova vita alla sua forma. Per quei veterani il passato aveva valore e doveva essere rispettato. Credo che sia altrettanto importante essere aperti al futuro, ed è fondamentale che ogni generazione possa avere la possibilità di creare e fornire il proprio contributo a questa storia

Chi invece preferisca mantenere l’attenzione sulla musica di Scott, che negli ultimi anni è risultato assai profilico con dischi di livello qualitativo mediamente elevato, nei quali le sue concezioni si traducono in una miscela acustico/elettronica dalla forte impronta ritmica, dominata dal particolare suono delle sue trombe, troverà occasione d’interesse in questo “Axiom”, registrazione di un concerto al Blue Note di New York tenuto giusto all’alba della pandemia, il 10 marzo del 2020, un attimo prima dello stop alle esibizioni dal vivo . Dal vivo la musica di Scott si spoglia in gran parte delle sovrastrutture elettroniche che si ascoltano negli album di studio, per guadagnare in espressività e dinamica comunicativa, con brani estesi ed ampie parti improvvisate nella logica del dialogo fra i protagonisti, la flautista Elena Pinderhughes, l’alto sassofonista Alex Han, il percussionista Weedie Braimah, il tastierista Lawrence Fields, il bassista Kris Funn, ed il batterista Corey Fonville. Il leader suona la tromba, una tromba denominata Adjuah costruita su misura, la sirenette, ed il reverse flugelhorn. Il cd testimonia di un set tutto sommato meno rivoluzionario rispetto ai propositi teorici di Scott, un jazz memore del Davis elettrico, ingentilito dalla presenza del flauto e dalla scrittura dalle venature romantiche di Scott, ibridato con ritmiche hip hop, con spazi solisti equamente distribuiti, Fields e la Pinderhughes su tutti, ed il particolare timbro degli strumenti del leader, che, modellato con l’ausilio dell’elettronica, scandisce le strutture tematiche dei brani, rischiando in taluni casi un effetto di eccessiva uniformità fra un episodio e l’altro. Si inizia con una forsennata “I own the night ” dal tema vagamente ispanico, per proseguire con “The last chieftain” dedicata a padre e nonno, ritmica ancora fremente ed ampi spazi per il piano elettrico di Fields, con la tensione trattenuta della davisiana ”Guinnevere”, fra i brani migliori grazie anche alla viscerale performance di Scott, presentata anche in versione alternativa nella versione digitale, con “Songs She Never Heard”, aperta da un flauto sorretto da un fitto tessuto percussivo ed in seguito aperta ai contributi del piano elettrico e delle trombe, con l’arioso tema di “Sunrise in Beijing” che nel 2015 apriva “Strech music”, e qui sembra più umana grazie all’uso di percussioni suonate live. “Huntress”, composta dalla madre di Scott, è un omaggio alle virtù femminili, scandito dal flauto e dalla tromba del leader su un tappeto sintetico, mentre ”West of the West” e la take alternativa di “The Last Chieftain” sono una vetrina per le doti di Alex Han, impegnato in torrenziali sortite soliste al sax . Si conclude sul riff accattivante e naif di “Diaspora”, titolo di un precedente album di Scott. Uno che, è vero, ama molto la teoria, ma quando c’è da suonare dimostra di non tirarsi indietro.

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