Il 19 settembre scorso Muhal Richard Abrams avrebbe compiuto 90 anni, mentre il prossimo 29 ottobre ricorrono tre anni dalla sua scomparsa. Mi piace ricordarlo con due splendidi album, uno per trio uscito nel 2006 ed uno di quest’anno, che raccoglie il lato più elettronico e contemporaneo grazie ad una attenta selezione di brani composti nell’arco di circa un trentennio.
Muhal Richard Abrams/George Lewis/Roscoe Mitchell – Streaming (2006)

Un disco straordinario, opera di tre musicisti di generazioni diverse ma di simile sensibilità e provienza, l’AACM di Chicago della quale Abrams è uno dei padri fondatori. Era dalla fine degli anni ’70 che dei tre musicisti non comparivano progetti comuni documentati su disco, ognuno impegnato nei propri percorsi, finché grazie alla Biennale di Venezia, nel 2005 si sono rincontrati. Da allora e per una decina di volte si sono riproposti in concerto, sempre in maniera libera ed aperta senza nessuna composizione prefissata.
Anche queste registrazioni sono frutto di una seduta completamente live in studio, in cui sgorga un flusso di materia musicale , come un albero con radici ben piantate nella tradizione afro-americana e, contestualmente, i rami e le foglie aperti alle correnti aeree più contemporanee. Una musica dell’oggi, con un largo sguardo al domani senza dimenticare il passato. Una forma aperta e non free, come giustamente scrive nelle note George Lewis, costruita sulla capacità di ascolto reciproco e sulla fiducia nell’interscambio e nel dialogo fittissimo. Nessun prim’attore capace di soffocare gli altri con il proprio ego, ma tre distinte personalità che si mettono in gioco e rischiano in forme aperte investendo tutta la propria capacità empatica e di correlazione. L’abilità polistrumentistica dei tre è decisiva nel mutare di situazioni, i cinque lunghi brani sono affrontati in solo, in duo ed in trio alternando momenti riflessivi a momenti di crescita drammatica di volumi e di pathos espressivo. Formidabile l’uso dell’elettronica da parte di George Lewis: dall’ evocare in “Soundhear” un giardino incantato con canto di uccelli a sostenere, sottolineare, precedere l’urlo spezzato delle ancie di Roscoe Mitchell o il suono possente e minimalista del pianoforte di Abrams.
Un album bellissimo e di difficile ascolto per noi, così poco abituati ad uscire da sentieri percorsi. Nessuna concessione e nessun riferimento se non alle proprie corde dell’anima: se si è in grado di concentrare la propria capacità introspettiva e l’attenzione dovuta questa musica suonerà come un balsamo capace di far dimenticare tutte le brutture che quotidianamente il nostro orecchio percepisce. Per me, meraviglioso. Cautelarsi se fans esclusivi di Wynton Marsalis.
Personnel
Muhal Richard Abrams – piano, bell, bamboo flute, taxi horn, percussion
George Lewis – trombone, lapto
Roscoe Mitchell – soprano saxophone, alto saxophone, percussion
Track listing:
Scrape
Bound
Dramaturns
Soundhear
Streaming
Etichetta : Pi Recordings

Nell’era della grande recessione dell’industria discografica tradizionale, mantenere in vita un’etichetta è di per sé un atto di virtuosismo: ma prodigarsi nella riedizione di opere rare destinate a una nicchia ristretta è un’indicazione di passione non comune e nobiltà intellettuale, ignorando il rischio economico concreto che si presenta ad ogni passo. Con questo modus operandi Karl Records di Thomas Herbst ha acquisito un prestigio assoluto nel circuito indipendente, in particolare con la serie “Perihel” curata da Reinhold Friedl, fondatore e direttore artistico dell’ensemble Zeitkratzer.
Se le recenti ristampe definitive dei capolavori elettronici di Iannis Xenakis – “La légende d’Eer” e “Persepolis” – potrebbero ancora raggiungere un pubblico relativamente più trasversale, l’opera di Richard Abrams (1930–2017) equivale a una scommessa tanto onerosa quanto necessaria per riequilibrare la storia ufficiale dell’avanguardia musicale americana.
Sorprenderà (forse) alcuni, infatti, scoprire dietro il nome di Abrams il mentore che, con la sua Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM), ha gettato le basi per l’incontro e la successiva affermazione di varie leggende del jazz libero dagli anni ’60 in poi: tra cui Anthony Braxton, Leroy Jenkins, George Lewis e il cuore dei membri dell’Art Ensemble di Chicago (Roscoe Mitchell e Lester Bowie), che appaiono anche in vari titoli nei pezzi raccolti in questa raccolta. Erano la dirompente risposta “nera” al movimento aleatorio Fluxus e alle correnti post-serialiste della New York School: in questo senso, quindi, l’influenza di Abrams sulla scena metropolitana di Chicago poteva ragionevolmente essere paragonata a quella di John Cage nel fervente humus culturale della Grande Mela.
Tuttavia, Abrams non ha mai trovato la sua giusta collocazione nel mondo: ignorato dall’élite di musica colta e dalle sale da concerto, e di conseguenza estromesso dai centri di ricerca di musica elettronica; la sua visione musicale sconfinata incontrò anche il dissenso da un certo ambiente jazz, colpevole di un purismo che contemplava solo il suono acustico in opposizione ideologica agli artifici praticabili nello studio di registrazione, per salvaguardare la componente umana – e l’identità razziale – inerente alla sua musica.
Compositore e polistrumentista, a proprio agio con pianoforte, clarinetto e violoncello, tuttavia nella sua ampia discografia Abrams ha sempre dovuto tenere in secondo piano gli esperimenti e le ibridazioni con l’elettronica, espressione del desiderio di andare ancora oltre i confini autoimposti del jazz americano, per quanto eclettici ed estranei agli schemi. La compilation “Celestial Birds” intende restituire piena dignità a questo lato dimenticato della sua inventiva, con una selezione di quattro brani registrati tra il 1968 e il 1995 e inclusi in altrettanti album firmati a suo nome.
L’unica traccia estesa, la suite intitolata “The Bird Song” occupava l’intero lato B dell’album di debutto “Levels and Degrees of Light” (1968), dimostrando una ambizione e un interesse iniziale per il collage ed il riarrangiamento in post-produzione. In un capitolo del suo saggio “L’immagine del jazz: vedere la musica attraverso la fotografia di Herman Leonard”, K. Heather Pinson ha confrontato il pezzo in forma libera di Abrams con le “allusioni ornitologiche” nella musica della seconda metà del XX secolo, da Charlie Parker al monumentale” Catalog d’oiseaux “di Olivier Messiaen, in effetti riferimenti plausibili per un autore che aspirava al pieno riconoscimento dell’intellighenzia di quel tempo.
Nei primi minuti, dopo strabilianti sfumature di sassofono, prende quota la recitazione poetica di David Moore che risuona in solitaria, versi con metriche libere e senza un filo logico distinto che suona come un annuncio profetico dall’alto – forse un’apocalisse imminente che renderà giustizia alla discriminazione contro la comunità nera?
Immediatamente dopo gli strumenti di una jazz band completa fanno il loro audace ingresso: Braxton e Jenkins al sax alto e al violino, Maurice McIntyre al sax tenore, Leonard Jones al contrabbasso, Thurman Barker alla batteria e lo stesso Abrams al pianoforte e clarinetto. Attraverso i riverberi e gli spazi forniti dalla scrittura le voci non sono più quelle di un ensemble in fervente dialogo, ma echi spettrali evocati dai recessi nascosti di una dimensione acusmatica profonda, uno spazio prospettico che altera i timbri e svanisce irreparabilmente i bordi , soprattutto al culmine del caos in continua crescita.
Un vero canto degli uccelli si fonde e alla fine soccombe ai clangori saturi delle percussioni, alle note alte dei sassofoni e alle stridenti armoniche naturali del violino, che ci guida verso l’altra estremità del tunnel con una serie di vertiginose e rapide scale.
Seguono due pezzi con il sintetizzatore, due modi diversi di dare sfogo alle moltitudini che si muovono nella mente creativa di Abrams . “Conversations With the Three of Me” (da The Hearinga Suite, 1989) si apre con acuti accordi di piano, consapevoli del tardo romanticismo al confine con la dissonanza del klavierstücke di Schoenberg, ma con una gravità sottostante che oggi ci rimanda anche ai dolorosi recital del maestro afro americano Julius Eastman, purtroppo dimenticato da tempo. Nella seconda metà del brano l’abbandono del pianoforte a favore del synth segna un’inversione sia dell’umore che del linguaggio: note libere e brevi si alternano come canne ondeggianti al vento, ora non più in balia dell’ingegno umano e quasi animate di vita propria.
La traccia successiva, “Think All, Focus One” (1995) è ancora più schizoide nella sua sovrapposizione di livelli ritmici e frasi irregolari con effetti contrastanti, con un atteggiamento beffardo che sembra tracciare gli ultimi (e quasi coevi) flair di Frank Zappa con il Synclavier.
In Conclusione c’è la title track di “Spihumonesty” (1980): un drone synth gutturale ( Abrams insieme a George Lewis) e i movimenti ondulati del theremin di Yousef Yancey delineano un inquietante scenario spazio-ambientale che si sblocca solo dopo cinque minuti, quando le traiettorie liquide di un organo elettrico dissolvono la tensione dominante, senza tuttavia nascondere un tono profondamente interrogativo,
Sebbene la definizione della figura di Muhal Richard Abrams sia una premessa necessaria all’esperienza di ascolto, i brani ricontestualizzati in “Celestial Birds” sono una testimonianza significativa delle intuizioni visionarie che lo hanno reso un guru per il suo entourage di talenti, fermi difensori di una libertà espressiva che veniva praticata intransigentemente, ignara di qualsiasi direzione diversa da quella in progressione.
Fonte foto copertina: Chicago Reader