L’intero mondo musicale attendeva qualche notizia certa sul suo stato di salute. Gli innumerevoli fans in ogni angolo del globo aspettavano una dichiarazione, qualsiasi cosa. In una corposa intervista al New York Times Keith Jarrett ha messo da parte il riserbo proverbiale e, forse anche per mettere fine ad una ridda di voci che s’intensificano da due anni a questa parte, ovvero da quando è stato colpito da due ictus che lo han costretto ad abbandonare la scena e lo strumento, ha preso la parola per lasciarsi andare ad una franca conversazione con Nate Chinen e chiarire anzitutto il suo stato di salute attuale. “Sono rimasto paralizzato. Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Posso camminare con il bastone ora, ma c’è voluto oltre un anno. Ci sono voluti lunghi mesi di riabilitazione in una clinica. Fingevo di essere Bach con una mano sola, ma era solo un gioco, per fare qualcosa.” “Non so cosa mi porterà il futuro. Attualmente non mi sento un pianista. E questo è quel che posso dire a proposito. (…) Ora quando ascolto due mani che suonano il pianoforte è molto frustrante per me, in modo fisico. Anche se sento Schubert, o qualcosa suonato piano e dolcemente, non ci riesco, è troppo per me. Perché so che non potrei farlo. E non mi aspetto di recuperarlo. Il massimo che dovrei riuscire a recuperare con la mano sinistra è forse la capacità di tenere in mano una tazza senza rovesciarla. Quindi questa non è proprio una cosa tipo “spara al pianista”. È più: “mi hanno già sparato. Ah-ah-ah-ah. “
Quando poi ha provato a suonare qualche familiare brano bebop si è accorto di averli dimenticati. E questo è ulteriormente triste, se si pensa al grado cui Jarrett aveva elevato l’arte dell’esecuzione di standards, in performance memorabili rese in tutto il mondo, una sorta di pietra di paragone ineludibile per chi metta mano ad una tastiera o si rivolga a quel repertorio. L’intera intervista a Jarrett tocca vari punti personali e relativi alla sua magistrale carriera, invitiamo ad una lettura completa chi mastica l’inglese: https://www.nytimes.com/2020/10/21/arts/music/keith-jarrett-piano.html
Nel mondo della musica nulla sarà più come prima. Amarezza infinita!
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Tristezza profonda.Ne ero al corrente da tempo.Conoscendolo,credo sia la peggiore condanna che potesse immaginare di subire.
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L’ha ripubblicato su Tracce e Sentieri.
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Bellissimo articolo letto su Repubblica.
Condivido.
27 ottobre 2020
L’importanza di fare come Keith Jarrett a Colonia nel 1975
(afp)
Cosa fare quando tutto sembra andare storto? Cosa fare adesso? Qualche giorno fa uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi, sì, Keith Jarrett, ha detto al mondo: ho avuto due ictus, non sono più un pianista. Ci lascia con più di mezzo secolo di grande musica e una lezione di vita indimenticabile. Il concerto di Colonia del 1975. Non so se avete già sentito la storia del concerto di Colonia del 24 gennaio 1975. Quando mi chiedono come nasce l’innovazione, come si crea un capolavoro, io ripenso a quello che accadde quella sera a Colonia. Keith Jarrett aveva appena 29 anni ed era già famosissimo. Dopo diverse collaborazioni prestigiose, era sbarcato in Europa per la prima tournée da solo. A Colonia arrivò da Zurigo nel pomeriggio di un gelido giorno di pioggia che sembrava fatto apposta per mandare tutti al diavolo: non dormiva da due giorni, aveva un mal di schiena furioso e quando nel pomeriggio salì sul palco per le prove, invece del pianoforte che aveva chiesto (un Bösendorfer Grand Imperial), ne trovò uno più piccolo, scordato e con i pedali fuori uso. Ok, me ne vado, disse più o meno, era il minimo. Ma l’organizzatrice era una ragazzina di 19 anni, Vera Brandes, e quella notte era il sogno della sua vita e non poteva lasciarla svanire così: inseguì Keith Jarrett disperata fin fuori dal teatro: lo trovò che era già in macchina, gli implorò di suonare lo stesso, gli promise che il piano lo avrebbe fatto accordare, certo era piccolo per il teatro da 1400 posti, tutti venduti, ma, disse più o meno, ti prego fallo per me. Vera Brandes doveva avere una passione notevole perché Jarrett accettò; alle 23 e 30 salì sul palco e letteralmente creò musica per circa un’ora. Suonò in modo incredibile, forse proprio perché sapeva che il pianoforte non era adatto, ci mise una energia e una intensità mai viste, dicono, prima e dopo. Il suo manager registrò l’esibizione e quel concerto è diventato il disco di piano solo più venduto della storia del jazz. Avrebbe potuto non suonare, quella sera Keith Jarrett, ne aveva tutte le ragioni. E invece ha suonato e ne è venuto fuori il più bel concerto della sua vita.
A volte anche noi nella vita non abbiamo il pianoforte adatto e tutto sembra andare storto: ma se abbiamo qualcosa di bello da raccontare, se abbiamo qualcosa di unico dentro, è il momento di dimostrarlo. Da sempre le cose cambiano, le migliori innovazioni succedono, quando usciamo dalla zona di comfort e ci mettiamo a suonare davvero.
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