Non conosco ovviamente Martina Simonelli, l’autrice di un articolo di quattro anni fa che qui riprendo per un motivo preciso. E’ una persona giovane, scrive prevalentemente di musica su una testata web e, nell’articolo che riprendo, ha provato a interrogare e interrogarsi riguardo alla musica jazz.
Dalle sue parole si arguisce facilmente la non dimestichezza con la materia, ma la sua spontaneità e la voglia di scoprire meritano rispetto, anche quando si dice convinta di essere entrata nel modo del jazz grazie a Fever cantata da Michael Bublè. Un pò come pensare di conoscere i segreti della lirica dopo aver ascoltato Bocelli.
Ma, tornando all’articolo, le risposte catturate al volo nelle strade di Roma sono un misto di umorismo involontario e ignoranza notevole, decisamente demoralizzanti per chi segue e ama questa musica.
“Se ti dico jazz a cosa pensi?”.
“Il riassunto delle risposte:
a) musicisti che suonano ognuno cose diverse dagli altri, ma tutti nello stesso momento;
b) “quella specie di violino grande”, che penso si riferisse al contrabasso;
c) la musica dei ristoranti chic;
d) un genere per pochi eletti;
e) una cosa che non capisci nemmeno se la studi.”
E ancora, riportando le note di Martina:
“Insomma, tanto di cappello, volendo essere ironici ci hanno indovinato un po’ tutti quanti.
Ma, messo da parte l’umorismo, ci siamo resi conto di quanto, in realtà, un genere nato dal basso sia ormai diventato un fenomeno di nicchia, davvero per “pochi eletti”. Il jazz, quel mondo sconosciuto e alquanto incomprensibile che, in realtà, affolla le nostre vite più di quanto pensiamo, ma che il nostro orecchio –allenato alle rime sole-cuore-amore e stupidissime melodie sempre uguali- non è più abituato a riconoscere.”
A questo punto la giornalista giunge alle sue conclusioni, che per quanto suonino assurde ad un appassionato, contengono in parte una piccola dose di verità:
“Esiste una quantità infinita di sottogeneri jazzistici. Quello più conosciuto- forse perché l’essere umano si diverte fondamentalmente a criticare- è proprio quello più “incomprensibile”. E lo è diventato non per natura propria, ma perché negli ultimi anni purtroppo spesso i musicisti hanno perso di vista il vero scopo con cui era nato e si concentrano esclusivamente su una tecnica portata all’eccesso.”
Il resto dell’articolo non è particolarmente interessante, daltronde non si tratta di una critica musicale, tantomeno di una “esperta” di jazz. Ma se l’idea della nostra musica che una persona comune prova è questa , e se le risposte ad un piccolo test sono quelle riportate sopra, c’è poco da stare allegri. La fine della pandemia sarà accompagnata, quando avverrà, dalla scomparsa di club, festival, etichette discografiche e negozi di dischi. Per non parlare dei musicisti, chi sarà riuscito a sfangarsela dovrà fare i conti con un mondo diverso, dove per la cultura e la musica ci saranno meno spazi, meno soldi e meno interesse. A questo punto, davanti al quadro che pian piano si prospetta, credo che al momento non mi rimanga che un drink per risollevare il morale. Per me una grappa, doppia!
Link: https://www.2duerighe.com/musica/67304-sommario-del-jazz-le-regole-per-amarlo-n1.html