Insieme a tanti altri dischi usciti nel 2020 di cui si parla in questi giorni di riepilogo dell’anno passato, ce n’è uno, forse passato un po’ in sordina, che mette insieme alcuni fra i più originali fiatisti del panorama jazz italiano, ovvero Marco Colonna, Francesco Chiapperini e Roger Rota, titolare di questo “Reality in illusion”(Setola di maiale), il cui cast si completa con la batteria di Stefano Grasso. Il lavoro è un breve ma intenso viaggio fra realtà ed illusione, come il film muto del 1926 di Renè Clair a cui si ispira, “Le Voyage Immaginaire”, storia di un amore nato in banca che attraversa diversi mondi e tempi, dall’antro delle fate alla rivoluzione francese fino a Charlie Chaplin prima di giungere alla coronazione finale . Anche i saxes ed i clarinetti di Rota, Colonna e Chiapperini, con la batteria effervescente di Grasso, si muovono su delicati, ma essenziali sfondi elettronici, nel confine fra una dimensione terrena ed una onirica, trasportando l’ascoltatore all’interno di paesaggi da sogno (“Dreamscape”), foreste incantate (“Enchanted forest”) e dentro ad atmosfere cariche di mistero (“On air”), ove spesso irrompe una voce strumentale solista, un sax o un clarinetto, che riporta tutto a “terra”. L’equilibrio si ritrova anche nell’alternanza dei brani, con cinque brevi improvvisazioni dedicate ciascuna ad uno strumento, che intervallano le composizioni maggiormente strutturate. I protagonisti della storia narrata nel film, Jean e Lucy, sono descritti con due delicati elegiaci ritratti, nei quali fanno capolino le ascendenze classiche del sassofonista bergamasco, evidenti anche nel gioco contrappuntistico dell’episodio finale “Beda”, un’ammaliante iterativa melodia giocata fra elettronica e sax, sulla quale si crea un dialogo incrociato fra i fiati. Lavoro di grande fascino ed equilibrio con una identità personale che risalta anche in assenza delle immagini di cui vuole essere commento. Incuriositi dall’autore di questa piccola perla, abbiamo contattato Roger Rota per farci spiegare qualcosa di più, di “Reality in illusion” e del suo creatore.

Ascoltando alcuni tuoi lavori, l’impressione è stata quella di un’ampia eterogeneità, con molteplici climi sonori che richiamano la classica, il jazz, la musica contemporanea, e contesti molto variabili. Come descriveresti il tuo mondo musicale?
Non sono un jazzista puro. Il termine jazz nella mia formazione significa “improvvisare”su qualsiasi forma musicale, anche lontanissima da strutture esplicitamente dedicate al linguaggio jazzistico.Nei miei lavori discografici, che poi sono la testimonianza di altrettante situazioni musicali realizzate con formazioni che hanno tenuto concerti lavorando dal vivo, si possono ascoltare influenze che arrivano da molteplici e variegati mondi sonori che vanno dalla musica colta europea (“TYU” e “E CONTINUA A SENTIRE”), all’africa nera (“TRIO B and A)”, dal folklore delle bande, all’avanguardia orchestrale (“OCTO”) all’elettronica di “REALITY IN ILLUSION”, fino alla musica extra europea attraverso uno studio dedicato ai Maqam con i tre conseguenti lavori discografici:”MAQAMAT” “ELECTRIC MAQAMAT” e “ACOUSTIC MAQAMAT”.
Qual’è stata la tua formazione musicale?
La mia formazione musicale inizia grazie a mio padre, musicista dilettante e grandissimo appassionato di jazz. Mi introdusse allo studio del sassofono passandomi la passione per il jazz e l’interesse per i grandi dell’epoca. Mi ricordo che, con una specie di flauto da me costruito, replicavo a memoria improvvisazioni di Lee Konitz e Paul Desmond sotto la sua attenta supervisione. Poi il Conservatorio, il Diploma in Fagotto e tanto lavoro nell’ambito della musica Classica, sia orchestrale che da camera (attività che comunque continua tutt’ora). Contemporaneamente il jazz orchestrale, e le prime formazioni con progetti discografici a mio nome.
Provieni da studi classici ma hai trovato precisi riferimenti nella storia del jazz?
Si, certamente: Coltrane, Konitz, Davis, ma i riferimenti espressivi si estendono anche alla musica contemporanea, alla dodecafonia ,alla musica Araba, al Tintinnabuli di Arvo Part.
Cosa significa per te suonare jazz ? E’un mero inguaggio che hai assimilato o ti riconosci anche in istanze morali che sono interessate da un modo di concepire le relazioni umane?
Certo, il rispetto, l’ascolto, la libertà creativa in un rapporto collettivo sono le linee guida che accompagnano un musicista che suona musica creativa, e tutto questo è molto bello. Devo dire comunque che anche in altri ambiti musicali che ho frequentato sta prevalendo la considerazione del musicista in quanto “artista” con le sue peculiarità e la sua creatività, pur rimanendo piu vincolato al genere e alla forma. Conta sempre essere ricchi dentro ed aver qualcosa da comunicare, in ogni ambito.
Che idea ti sei fatto del momento attuale della scena jazz italiana di cui fai
parte?
E’ un momento secondo me molto interessante. Con Octo e Reality In Illusion ed ancora prima con “E continua a sentire” ho riunito giovani musicisti dell’area della musica creativa italiana. Mi ha molto colpito la voglia di fare musica che questiicisti si portano dentro, al di la di questioni di cachet, di location ed altro. Soprattutto si svincolano da una tradizione fine a se stessa; attingono dalla musica a 180
gradi senza confini o catalogazioni di vario genere. Questo a me piace molto, è il pensiero che ha sempre guidato le mie scelte.
In Octo ho avvertito qualche traccia che mi ha ricordato alcune cose di Gianluigi Trovesi, come l’impronta bandistica . E’un caso o c’è qualche relazione?
Gianluigi è stato per noi “jazzisti” bergamaschi un modello di professionalità e caratura artistica di grande rispetto e ammirazione. Ho lavorato in diverse occasioni con lui, dal lavoro discografico di Giorgio Gaslini “Mask” , alla tournèe europea e canadese di Enrico Rava con il disco “RAVA CARMEN”, alle innumerevoli sue partecipazioni con Ensemble Mobile (formazione orchestrale) che ho diretto dal 1990 al 1996. Octo puo ricordare i suoi lavori ECM di OTTETTO, ma direi che è affinità timbrica, massa di suono. Mi hanno sempre interessato di più le situazioni di Gianluigi in solitaria, ma anche col mitico trio con Damiani e Cazzola.
Se non sbaglio spesso hai sviluppato progetti musicali in simbiosi con altreforme artistiche quali teatro, installazioni ecc. Come cambia la tua musica in questi casi rispetto alle composizioni nate solo in funzione dell’esecuzione dalvivo e della registrazione?
Direi che in fondo non cambia nulla. Il mio modo di comporre è comunque una narrazione. In questi casi è la condivisione di un percorso con l’altro artista ma sempre una narrazione che porti avanti col tuo linguaggio.
Come stai affrontando questo periodo di chiusura di concerti e possibilità di
esibizioni?
Con difficoltà, come per tutte le persone che lavorano nel mondo dell’arte.
Ho realizzato un disco, “SINE DIE” durante il primo lockdown, attraverso la registrazione a distanza, con diversi musicisti che stavano vivendo come me quel tristissimo momento. Questo lavoro ha fotografato un momento creativo molto particolare, che rimarrà chiuso all’interno di tracce che non vedranno un progetto live e la luce di un palcoscenico.
https://rogerrota.bandcamp.com