Thelonious Monk non è mai passato per uomo molto comunicativo, tutt’altro. Ma quando per un breve periodo nel 1960 il giovane Steve Lacy entrò nel suo gruppo, il pianista lo prese da parte per dargli delle indicazioni su quello che si attendeva da lui. Lacy, al settimo clielo, ma evidentemente un po’ ansioso (Monk si era fatta reputazione di uomo non facile, il che complicò ulteriormente i suoi esordi nell’ambiente musicale), si premurò di trascriversi su due fogli gli insegnamenti monkiani. La leggenda vuole che queste due carte, riprodotte e diffuse in svariate copie, siano diventati un po’ l’equivalente jazzistico dei Rotoli del Mar Morto.

Se a Mosè disceso dal Sinai bastarono dieci comandamenti, il solitamente laconico Monk se ne concesse ben 25. Intendiamoci, pur concedendo al documento di Lacy la natura di un brogliaccio, di un vademecum di appunti, questi ‘comandamenti’ hanno tutta l’aria di concentrati (e spesso enigmatici) aforismi. Il che quadra perfettamente con l’immagine di Thelonious. Il contenuto di questi, invece, riserva qualche sorpresa, almeno alla luce dell’immagine monkiana che si è costruita a posteriori attraverso la pressoché universale canonizzazione del suo corpus di temi, buona parte dei quali diventati in pochi anni degli standards irrinunziabili ed onnipresenti (in buona parte grazie proprio all’instancabile ‘predicazione’ di Lacy, vero e proprio ‘apostolo’, dunque)
Vediamone qualcuno (misericordia per il traduttore, c’è anche da far i conti con l’aura sapienziale dei precetti monkiani):
“Il fatto che tu non sia un batterista non ti esime dall’andare a tempo”
“Mentre suoni batti il piede e canta la melodia dentro di te”
“Non suonare la parte del piano, lo sto già facendo io”
“Non ascoltare me. Si suppone che sia IO ad accompagnarti”
“Non suonare sempre tutto ogni volta. Tralascia qualcosa, della musica da immaginare. Quello che non suoni può esser più importante di quello che suoni”
“Smettila di suonare tutte quelle … stronzate (eufemistico, N.d.R.), tutte quelle note assurde, suona la melodia”
“Fai sollevare il palco !!! ”
“Qualsiasi cosa pensi che non possa esser fatta, arriverà qualcuno e la farà. Il vero genio è quello che somiglia a sé stesso”
“Questi pezzi sono stati scritti per avere qualcosa da suonare….. e per far sì che i ragazzi (“cats”) siano sufficientemente interessati a venire alle prove”
“Fai in modo che il batterista suoni bene”
“Non questuare un ingaggio, semplicemente stai sulla scena”
“Quando stai swingando, fallo ancora un poco di più”
“Lasciali sempre con la voglia di qualcos’altro” (il pubblico? N.d.R.)
“ (Come ci dobbiamo vestire stasera?) Più FIGHI che sia possibile!”

Di fronte a questo campionario di icastici koan zen, c’è poco da stupirsi per la consumante passione dei giapponesi per il jazz. Mentre noi ci fermiamo qui, chi volesse approfondire può ricorrere a questo video di due giovani musicisti americani, che cercano di interpretare ed attualizzare le Tavole Monkiane.
Si sa, in America ci sono manuali su tutto (o quasi…), ma nonostante molto spirito e buona volontà, e persino un paio di rischiosi scartellamenti dall ‘ortodossia politically correct’, gli arcani jazzistici sfiorati da Monk rimangono più inafferrabili di certe diatribe teologiche dei tempi andati. Con la differenza che queste ultime giungevano persino al rogo post-mortem (quelli ‘ante’ erano normale amministrazione), mentre gli scismi jazzistici non hanno mai fatto vittime. A parte qualche cazzotto negli anni Trenta in Francia, ma si sa, quelli ‘…so’ convinti’…. Noi no, siamo più avanti (dove?). Milton56
‘La Via Lattea’, 1968, Luis Bunuel. Luis, Luis, quanto ci manchi……Visione caldamente consigliata 😉
Il primo commento non può essere granché, comparato al post articolato di Milton, ma ho da paco pubblicato un brano di Monk che è passato inosservato, soprattutto ad Arturo Pepe che, chissà come mai, segue il mio blog. Solo briciole, sono le mie, lo so.
"Mi piace"Piace a 1 persona