Gran bella copertina, è ‘Materia’ di Patrizio Previtali. Ricorda un po’ Burri…..
E’ qualche tempo che mi guardo intorno alla ricerca di segnali che dimostrino un rinnovamento della nostra scena jazzistica, e ne esco quasi sempre con un’impressione ambivalente. La metà piena del bicchiere è che qualche nuovo talento si affaccia alla ribalta nonostante una situazione ambientale che più sfavorevole non si potrebbe (e parlo del ‘mondo di prima’); quella vuota è che sempre più spesso questi debutti maturano compiutamente e conoscono il loro momento realizzativo saliente altrove, fuori dai nostri confini, e spesso in compagnia di partner stranieri. Del resto, è inutile illudersi che una certa atmosfera asfittica non imponga il suo dazio: abbiamo già parlato a iosa di presenze incombenti ed invasive, di scarsità di palchi e di occasioni di suonare continuativamente, di programmazioni che impigriscono e banalizzano i gusti di un pubblico che già di suo ha idee spesso abbastanza confuse. Inutile ripetersi, soprattutto in momento di silenzio pressoché totale come questo. Momento che però è opportuno sfruttare per qualche annotazione sul nostro taccuino delle cose interessanti, da riaprire a diluvio trascorso.
Una paginetta spetta senz’altro a Federico Calcagno, classe 1995 (!), brillantemente diplomato in clarinetto al Conservatorio Verdi di Milano, perfezionamento ad Amsterdam e partecipazione ad un workshop diretto da Vijay Iyer e Tishawn Sorey. Se ci aggiungiamo un paio di prove discografiche di esordio, direi che è un curriculum già bello denso per venticinque anni.
Ma c’è dell’altro, ed è questo che ha attirato la mia attenzione. L’Italia è paese dove i premi pullulano, al punto che a volte scarseggiano i premiandi per giustificarne l’esistenza. Ma il Premio Gaslini è tutt’altra cosa: a parte le radici che sono già un impegno di non poco conto, la sua giuria è composta da Franco D’Andrea, Bruno Tommaso e Roberto Bonati (uno dei partner più assidui dell’ultimo Gaslini). Il nostro Calcagno lo ha vinto nell’edizione 2020: ragione di più per considerare con molta attenzione questo ‘Liquid Identities’.
Cominciamo dicendo che i clarinetti di Calcagno sono alla testa di una formazione piuttosto originale: Josè Soares al sax alto, Adrian Moncada al piano, Pau Sola Masafrets al violoncello, Nick Thessalonikefs alla batteria. Una vera Legione Straniera in musica, non c’è che dire, è la band olandese del nostro.
Questo particolare organico mantiene quel che promette sulla carta: una gamma di colori sfumata, ma anche molto diversificata. Il cello è strumento che appare raramente in un gruppo jazz: ma quando succede, quasi sempre è sintomo che ci sono nuove idee in ebollizione. Qui poi lo strumento è sfruttato nel modo più classico, archetto alla mano, ma Sola Massafrets nei frequenti e caratterizzanti soli che gli sono concessi dà prova di uno swing e di un drive da jazzman purosangue. La ricorrente evidenza concessa a questo ‘arco’ contribuisce non poco a fascino ed originalità dell’insieme, caratterizzato prevalentemente da atmosfere luminose e calde (fatto non così frequente in gran parte del ‘jazz giovane’).

Strutturalmente ci troviamo di fronte senz’altro a musica piuttosto ‘pensata’, che però si dipana con notevole fluidità narrativa perlopiù in una distesa atmosfera cameristica, arricchita talvolta da un tocco di misterioso fascino. Non mancano certo gli assoli che rivelano la notevole maturità di tutti i musicisti del gruppo, ma essi non si distaccano mai in modo netto da un complessivo discorso musicale sempre percepibilmente unitario nell’ispirazione e nel mood, in cui risultano ‘incastonati’ in modo avvolgente, quasi come miniature.
La scrittura del Calcagno compositore è nitida e caratterizzata da una piana leggibilità che peraltro non va a scapito di complessità ed innovazione. Molto si deve ai temi mossi e vivaci, molto in evidenza e che con la loro ricorrente circolarità rappresentano per l’ascoltatore una bussola in un percorso vario e movimentato.
Non mancano infatti transizioni abbastanza secche ed improvvise tra unisoni angolosi e scanditi (ormai un classico del jazz degli ultimi anni) e momenti di lirismo sospeso e quasi sognante. Sbalzi dinamici, contrasti tra unisoni e momenti di polifonia della frontline dei fiati sono tutti gestiti abilmente e con fluido equilibrio; parco e pertinente il ricorso da parte di questi ultimi a forzature dei registri strumentali (cosa che non si può dire di molti…).
Insomma, oltre ad incontrare un clarinetto basso che riesce a dire una sua parola personale in una tradizione che annovera antecedenti della statura di Eric Dolphy e David Murray, ci troviamo in presenza di un’altra ‘bella penna’, che va a far compagnia ai Michelangelo Scandroglio ed ai Ferdinando Romano di cui abbiamo parlato tempo fa. Pur considerando che queste opere d’esordio beneficiano di una particolare densità e rifinitura dovuta ad un lungo periodo di preparazione, c’è da attendersi ulteriori prove della brillantezza e della scioltezza di questo album di musica in perenne movimento, un bel viaggio curioso ed intraprendente tra paesaggi sempre diversi. Ahimè, noi questo gruppo così originale e raffinato ce lo potremo godere solo dagli altoparlanti di uno stereo (l’album è disponibile in cd e digitale su Bandcamp, già presente in streaming sulle varie piattaforme, Spotify in testa). La verifica del palco la dovremo rinviare a futuro indefinito (la band fa base stabile ad Amsterdam, dove è stato interamente realizzato ‘Liquid Identitites’): per adesso consoliamoci con questa clip che viene dal famoso BimHuis, non proprio una scena qualsiasi per una giovane band. Milton56
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