Ogni rosa ha le sue spine, e Bergamo Jazz non fa eccezione. Mettetevi comodi, ho parecchio da raccontarvi.
Cominciamo da una delusione ‘cercata’. Avevo un buon ricordo di Hobby Horse, che risaliva ad anni fa, se non sbaglio un set pomeridiano al Teatro della Triennale (già mitico come Teatro dell’Arte negli anni ’60, prime apparizioni italiane di Miles Davis, John Coltrane etc). Quando li ho rivisti nel cartellone di Bergamo Jazz 2021 li ho scelti senza esitazioni, incuriosito da un trio costituito da musicisti che hanno già dato individualmente prove intriganti in altra sede (Dan Kinzelmann sax tenore, Stefano Tamborrino batteria, Joe Rehmer basso elettrico). Premesso che gli anni passano e bisogna fare la tara su di una certa distanza che si crea verso sentimenti del tempo molto remoti dalla propria esperienza e sensibilità, devo purtuttavia fare qualche annotazione critica sulla performance, anche se a Tracce non rientra nelle nostre abitudini esibirci in stroncature su proposte con le quali magari non abbiamo grande familiarità ed assonanza. Ma qui è in ballo una questione generale, di quelle che fanno la felicità dell’Impolitico perché mettono in discussione derive e luoghi comuni di larga circolazione. E’ fuor di dubbio che il jazz debba tenere aperte le sue finestre sulla Strada e sui suoni nuovi che ne salgono, ne va della sua stessa ragion d’essere. Ma altra cosa è inseguire – spesso anche con il fiatone – mode e tendenze ‘mimandone’ dall’esterno le maniere e gli stilemi più superficiali e vistosi e soprattutto rinunziando del tutto a filtrarli e rielaborarli arricchendoli con la complessità e la profondità di un mondo musicale con un secolo di storia alle spalle. Quasi un’ora di un beat monocorde ed ossessivo che ben avrebbe potuto venire da una batteria digitale programmata, fondali elettronici che miravano ad allargare l’orizzonte della musica e che invece finivano per diluire e sommergere alcuni momenti interessanti come taluni interventi solistici del sax metallicamente abrasivo o alcuni abbozzi del basso, qualche intervento di spoken word un po’ esibito ed avulso dal contesto: di qui crescenti defezioni a concerto in corso in un pubblico non sprovveduto riguardo ad esperienze di ricerca. Per me, ma anche per altri con cui ho scambiato impressioni, un’occasione perduta.
Una seconda disillusione invece l’ho subita. Nel mio carnet figurava in bella evidenza il concerto di Federico Calcagno e dei suoi Dolphians. Del leader vi ho già parlato in altro contesto di gruppo, il suo ‘Liquid Identities’ è stato un’esperienza d’ascolto molto intrigante e promettente. L’occasione era impreziosita dal fatto che Calcagno ed alcuni suoi compagni di strada sono ormai pressoché stabiliti in Olanda, ennesimi emigranti creativi da una patria alquanto matrigna. Ma ahimè il concerto era stato programmato in uno spazio all’aperto ed il meteo, che ha tenuto per due giorni nonostante costanti previsioni avverse, la domenica ha preso la sua rivincita con piogge temporalesche sin dal mattino. E così sono stati annullati il concerto dei tre clarinetti Trovesi, Ferrari & Ferrari in mattinata e nel tardo pomeriggio anche quello di Calcagno previsto per le 19. Con un poco di elasticità organizzativa almeno quest’ultimo avrebbe potuto esser recuperato su di un altro dei palchi a disposizione del Festival: ad esempio al Teatro Sociale che aveva appena ospitato alle 17 il Tinissima di Bearzatti, l’avvicendamento di due gruppi acustici sullo stesso palco non avrebbe dovuto creare grandi problemi di riassetto dell’impianto audio. Il successivo ascolto di ‘From Another Planet’ (che vi consiglio caldamente) ha solo acuito il rimpianto.
Consoliamoci con questa clip di Calcagno ed i Dolphians a Macerata nel giugno scorso. ‘Gazzelloni’ è una delle perle di quell’album straordinario che è ‘Out to Lunch’ di Eric Dolphy. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di raccogliere direttamente un’eredità quantomai impegnativa…
Ma per fortuna ci sono anche le serate di magia. Torniamo a sabato sera, Teatro Donizetti finalmente riaperto dopo il restauro. L’attesa è stata lunga, ma il risultato è all’altezza: ambienti di gran fascino, cui è stata donata moderna funzionalità. L’acustica rimane perfetta, calda ed insieme dettagliata: basta un’amplificazione minima, giusto per il necessario riequilibrio dei livelli. Molto raramente il jazz si vede concedere un suono così sontuoso. Aggiungiamoci che di fatto Bergamo Jazz inaugura il teatro rinnovato, e non è certo un’ospite di passaggio, tant’è vero che è evocato nel bel documentario di presentazione ‘D’incanto’: visto con occhi milanesi, il tutto sembra una fiaba. Guardiamoci intorno: è pienone distanziato, e di un pubblico certamente non d’occasione, tutt’altro. C’è palesemente un’intensa atmosfera di attesa.
Infatti è di scena il quartetto Franco D’Andrea, Dave Douglas, Federica Michisanti e Dan Weiss. Per molti altri come me questo è il clou del Festival. Le grandi attese spesso però portano con sé il timore della disillusione: un grillo parlante dentro di me avanza il dubbio che questo impressionante organico possa somigliare a molte altre ‘All Stars’ che il jazz ha conosciuto. Ovvero, sulla carta possenti somme aritmetiche di grandi talenti, sul palco spesso invece una somma algebrica in cui l’interplay di gruppo fa le spese di una di una circospetta e distanziata coabitazione di personalità troppo pronunciate.
Ma sono bastate poche battute del quartetto per dissipare queste nubi. La lucida intelligenza progettuale di D’Andrea imprime una forte matrice al gruppo, che si rivela fortemente integrato. Il disegno ha la nitidezza e l’efficacia di quello di un grande architetto. Siamo davanti a gente che traccia nuove strade oltre i margini delle mappe conosciute.

L’impostazione concettuale molto rigorosa e netta del sistema intervallare di D’Andrea dà alla musica un tono di novità, un che di futuribile e di sorprendente originalità che mi ha fatto scattare una spontanea analogia con le prime registrazioni in cui George Russell metteva alla prova sul campo il suo Lydian Tonal Concept. Una certa spigolosità concettuale è comune ad entrambe le esperienze.
Grande spazio è lasciato a Dave Douglas, autore dei brani, poi riarrangiati da D’Andrea secondo il suo sistema intervallare (basato sulla differenza di altezza sonora tra le varie note consecutive). Il navigato trombettista americano, brillante ed arguto presentatore della serata, non ha avuto difficoltà ad ammettere di aver sudato non poco nell’interpretare le sue stesse composizioni avvalendosi di un metodo improvvisativo che ha definito senza mezzi termini ‘rivoluzionario’ .
La tromba di Douglas ha scandito spesso con energia stentorea e con pronuncia quasi vocalizzante le angolose e scoscese linee dettate dall’eminenza grigia che dal piano mandava accordi e schemi armonici molto vincolanti ed assertivi nel tracciare la via dell’intero gruppo. Infatti la regia dell’intero concerto è rimasta saldamente nelle mani di D’Andrea, che però è sempre rimasto un passo indietro rispetto alla ribalta salvo le parentesi solistiche ed un intenso dialogo con il basso della Michisanti. Ha colpito comunque la docilità e la spontaneità con cui i partner si sono inserti in un disegno rigoroso ed incisivo tracciato dal pianista. Se è vero che recentemente D’Andrea è apparso in gruppi dove il suo ruolo di mentore era indiscusso sia per fatto anagrafico che per curriculum musicale, qui si trovava in compagnia di musicisti che come Douglas sono portatori da tempo di proprie ben definite visioni musicali riflesse nei gruppi che da tempo li vedono a loro volta in ruoli guida.
A questo punto non vorrei aver creato l’impressione che a Bergamo ci sia trovati davanti ad una delle tante (troppe) musiche del solo intelletto che oggi circolano. La tromba di Douglas era prevalentemente attestata su una calda gamma media ed il fraseggio, pur marcatamente scandito, conservava comunque un’intensa ed estrosa passionalità. Quanto a D’Andrea, sappiamo da tempo che la complessità delle sue esplorazioni non si disgiunge mai dalla natura vibrante e tesa del suo tocco, e soprattutto da quel caldo ‘blues tinge’ tipico di chi ha nelle mani decenni di storia di questa musica, e non solo e non tanto per averla studiata, quanto per averla direttamente vissuta in prima persona.
Nell’ascoltatore si faceva strada l’impressione di scivolare su di un piano inclinato senza alcun punto di arresto o di caduta, una sensazione forse simile all’astronauta che sperimenta la perdita della gravità e comincia ad acclimatarsi ad uno spazio privo di coordinate definite. Ma alla fine un cavo che ci lega all’astronave si fa sentire. E si tratta del basso della Michisanti e della batteria di Dan Weiss.
Michisanti è stata fortemente voluta da Douglas, colpito dalla bassista romana sin dal 2019 quando come allora direttore artistico di Bergamo Jazz la ingaggiò con il suo Horn Trio. Ad onta dell’impeccabile pronunzia italiana (magnificata anche da D’Andrea) curiosamente Douglas ha qualche imbarazzo con il nome ‘Federica’. E così dopo un notevole assolo di basso, il trombettista se ne esce con: “now we can call her Freddie..”. E così a fianco della già convincente Federica leader di piccoli gruppi raccolti intorno a sé, adesso abbiamo la Freddie strumentista autorevole e personale, con suono allo stesso tempo potente e ricco di sfumature e con un fraseggio insieme molto netto e fluido che è emerso con continuità ed evidenza per tutto il set, donandogli un’essenziale propulsione di fondo. Con un tale ‘affidavit’ di Douglas alle spalle, c’è da scommettere che ‘Freddie’ Michisanti entrerà nella rubrica di molte formazioni americane alla ricerca per le loro date europee di una bassista che possa integrarsi creativamente in contesti di innovazione e ricerca.
Dan Weiss ci riconcilia con la batteria dopo l’esperienza del pomeriggio. Uno strumento che non a torto qualcuno ha definito ‘percussionistico’ per la ricchezza dei suoi accenti; la sua fremente onnipresenza ha molto contribuito alla tessitura del gruppo. Più che meritata un’ampia finestra solistica in cui Weiss a mani nude sulle pelli ci ha dato una testimonianza della sua vasta cultura in materia di percussione, con particolare riferimento alla tradizione indiana. Uno dei più emozionanti momenti alti di questa lunga serata.
Lunghe ovazioni finali strappano anche un secondo bis, evidentemente improvvisato fuori dal book del quartetto: un dilatato e rarefatto ‘Crepuscle with Nellie’, che ad onta dei natali monkiani si è sviluppato al di fuori del sistema intervallare, facendocene ancora di più percepire ‘per sottrazione’ l’originalità. In un mondo popolato di orecchi elettronici intrusivi ed abusivi sarebbe un’inaccettabile paradosso che questa musica sia destinata a perdersi nel vento. Milton56
E giusto a proposito, mi è riuscito di trovare solo questa clip per darvi un’idea di quest’avventuarosa band. Qui sono in Spagna a San Sebastian nello scorso agosto, Cliccate su ‘play’, non ve ne pentirete…