In genere sono solito ascoltare un disco almeno tre o quattro volte prima di formare un giudizio personale. Oggi, forse per impazienza o per la moltiplicata mole di opere che capitano sui miei “lettori”, ho introdotto un flitro preliminare, basato sull’impressione delle prime note. Se catturano la mia attenzione, o si predispongono in una forma che in quel particolare momento entra in sintonia con il mio stato d’animo, con ogni probabilità proseguo l’applicazione nelle dosi previste. Cosa che più raramente avviene in caso contrario. Pratica molto parziale e discutibile, lo so, ma necessaria come meccanismo di selezione e difesa dal soverchiamento totale.
Il panegirico di cui sopra per dire che, si, “Architexture“, (Naxos,2020)opera del pianista Florian Ross, un musicista eclettico che si muove fra jazz, classica ed elettronica, e del giovane sassofonista Sebastian Gille, con David Helm al contrabbasso e Fabian Arends alla batteria, mi ha conquistato fin dai primi momenti. Le note liquide del pianoforte di “Alvaro“, con l’apertura dei fiati prima in sottofondo, quindi sempre più evidenti, hanno, evidentemente, trovato un ascoltatore favorevolmente predisposto.
Intento delle composizioni di Ross – tutte originali tranne una rielaborazione del tema di “Nimrod” dalle “Enigma Variations” di Edward Elgar – è quello di trasferire in musica le suggestioni ricavate dall’ammirazione di opere architettoniche sparse per il mondo, dai padiglioni dell’Esposizione di Lisbona alla Sagrada Familia, dagli stili architettonici di Rio De Janeiro al Flat Iron di New York, dalle case prefabbricate dei sobborghi di alcune città statunitensi all’utopia moderna di Brasilia, passando per alcuni cottage molto particolari, come vedremo.
Prima di iniziare, altra avvertenza: accanto al quartetto base opera una piccola orchestra di fiati, l’Event Wind Ensemble (Lucy Driver e Matthew Hinghman ai flauti, Kristof Dömötör al clarinetto basso e Ambroise Dojat al fagotto) diretto da Susanne Blumenthal. Indizio significativo per la collocazione dell’opera, che si inserisce fra il jazz e la classica, ma lo fa in modo naturale, con un equilibrio che permette di mantenere intatte le principali caratteristiche dei due linguaggi, pur operandone una sintesi. Prendete il secondo pezzo “Richard” dedicato all’architetto R. Neutra: un tema melodicamente accattivante viene introdotto dal pianoforte e ripreso dal pieno orchestrale con un arrangiamento raffinato e leggero, quindi il solo del clarinetto e quello del pianoforte, per concludere in una dinamica contrapposizione/dialogo a simboleggiare la dialettica fra simmetria ed asimmetria che caratterizza le opere di Neutra.
Tratti che ricorrono in molte delle composizioni del disco, sempre sviluppate su forme concrete, pur nell’alternanza di atmosfere che caratterizza ogni “dedica” : dalla concentrata souplesse meditativa e contemporanea di “Maya“, ispirata a Maya Lin, realizzatrice del Vietnam Veterans Memorial, ai contrasti fra serietà e gioco di “Antoni” (Gaudì, il celebre architetto catalano), dalla danzabilità latina di “Development one” ai complessi intarsi contrappuntistici che rappresentano l’opera dell’artista rococò settecentesco Dominikus Zimmermann, fino alla solennità di “Brinkwell’s cottage” nella quale Ross riplasma il frammento delle Enigma variation di Edgar. Ci sono, poi, in quest’opera densa di contenuti e citazioni, tre altre sorprese. “Daniel“, per il creatore del famoso edificio a forma di ferro da stiro sulla Quinta Avenue di New York, D.Burnham, dalla struttura molto movimentata, è uno fra i brani con la più forte impronta jazz, attraversata dai soli del soprano di Gille e quindi del pianoforte di Ross. “Oscar” dall’andamento bizzarro che richiama nella prima parte alcune prove orchestrali di Frank Zappa, rappresenta la lucida follia di O. Niemeyer, il creatore di Brasilia, la città nata in mezzo alla giungla. Infine “Glebe cottage“, la dedica forse più personale ed emozionante come spiega Florian Ross. “John Taylor (il pianista britannico da poco scomparso ndr) non fu solo il mio insegnante, ma con il tempo divenne un caro amico e rimane un’influenza dominante nella mia musica fino ai giorni attuali . Un giorno, intorno alla fine del 1996, andai a trovare lui e sua moglie nel Kent nel cottage chiamato Glebe. John aveva una piccola casetta nel giardino dove teneva il piano a coda, una piccola libreria e centinaia di spartiti. Quando entrai in quel “luogo sacro”, mi sentii immediatamente a casa“. Un ricordo che il titolare dell’incisione celebra con una delle più affascinanti composizioni di Architexture, fitta di temi che nascono e svaniscono e di voli del sassofono, sul tessuto narrativo costruito dal pianoforte.