CONSIDERAZIONI DI UN’IMPOLITICO – 12. A MICROFONI SPENTI

Lo so, di questi tempi bisognerebbe ‘pensare positivo’, magari con tanto di coach collegato via Zoom. Ma ce lo vedete voi l’Impolitico a mettersi sulle orme che furono già di Hare Krishna, Dianetici et similia? Con qualche decennio di ritardo, poi?.

Ragion per cui l’occhio non poteva non cadergli su questa notizia. Gli studi di registrazione nostrani se la passano male, anzi malissimo, ed anche qui il Covid ha solo peggiorato e precipitato processi in atto già da tempo.

Certo, bisogna inquadrare, contestualizzare etc. Si dirà: il tempo della musica leggera che esigeva strumentazioni di grande complessità e sofisticazione per aggiungere colori ed effetti che impreziosissero contenuti a volte gracili ed un po’ risaputi è finito. Sopravvivono invece le esigenze di qualità e dettaglio di altre musiche, come appunto il nostro jazz. Ma siamo chiari: con la quantità delle produzioni jazzistiche nostrane e soprattutto con i budget a loro disposizione certo non c’è da far campare un settore che tra l’altro comporta investimenti tecnologici notevoli ed in continua evoluzione.

I ‘maghi dei suoni’ non sono certo rimasti con le mani in mano: molti intelligentemente si sono indirizzati verso la produzione di contenuti in streaming, completando le loro attrezzature. Ma abbiamo visto che in molti settori musicali, il nostro in testa, questa via non è stata battuta con convinzione e lungimiranza, forse ritenendola un surrogato temporaneo e di emergenza e non uno stabile canale complementare di comunicazione con un pubblico più ampio e distante. Spero di sbagliarmi, ma temo che si tratti di un errore che si pagherà caro al levarsi dei primi venticelli autunnali.

Il mitico Studio Fonorama di Milano, quello di ‘A Night in Fonorama’ di cui parlavamo giorni fa…..

Ho sempre pensato che nel jazz i tecnici del suono avessero una funzione ed un’importanza del tutto simile a quella dei direttori della fotografia nel cinema. Riusciamo ad immaginare Ingmar Bergman senza Sven Nykvist? O Bertolucci senza Storaro? Oppure ancora Antonioni senza Di Venanzo? Non a caso ognuna delle grandi label jazzistiche, quelle che sono state capaci di poter esprimere una loro estetica che supportava e moltiplicava l’impatto dei loro artisti, avevano ciascuna un proprio ‘suono’ specifico e riconoscibile, ed i musicisti le sceglievano anche per questo.

“Ma si tratta anche qui di un’era al tramonto, almeno in larga misura…”, osserveranno i soliti realisti che tengono per il Presente Assoluto, quelli del ‘non c’è alternativa’. “Oggi si diffonde l’autoproduzione, la registrazione in proprio in ambito domestico (o giù di lì…)… nessuno è indispensabile”. Sul piano estetico ho molte riserve di fronte a questa tendenza alla ‘disintermediazione’ trasferita anche al campo musicale (altrove abbiamo già visto i suoi esiti, in politica, per esempio…): il jazz rimane per me una musica eminentemente ‘dialettica’, che richiede il bilanciarsi e l’equilibrarsi di fattori diversi, autoreferenzialità ed ambizioni di autosufficienza individuale restano degli ingannevoli vicoli ciechi.

Ma non è solo questione di estetica, ci sono anche ragioni tecniche. In primis, le tecnologie di registrazione sono diventate sempre più complesse, e soprattutto usufruire di tutte le possibilità da loro offerte implica dimestichezza con strumenti software non facili, né rapidi da padroneggiare. Sempreché non si punti ad un risultato che non vada molto più in là delle famose ‘cassette demo’ di una volta: ma allora ti saluto uso estensivo dell’elettronica, per non parlare del ricorso ad organici complessi, magari anche timbricamente e dinamicamente diversificati e diseguali.

E soprattutto c’è il problema del come, dove e con che cosa la musica verrà ascoltata dal pubblico. Si tratta di questione viva soprattutto adesso, dal momento che il mondo dell’ascolto è diventato una babele in cui i classici stereo domestici sono solo piccola parte del paesaggio, affiancati da dispositivi mobili delle più svariate caratteristiche e soprattutto che utilizzano formati quantomai diversificati, ognuno dei quali offre una resa sensibilmente diversa della stessa musica: queste mutevoli combinazioni di dispositivi e formati diventano facilmente un labirinto di specchi in cui parte notevole delle scelte fatte in studio dai musicisti rischiano di perdersi irrimediabilmente. E questa ‘quadratura del cerchio’ è faccenda che va lasciata senz’altro a tecnici di grande competenza e soprattutto con vaste esperienze di ascolto dei più diversi apparecchi audio.

Basti pensare che negli USA stanno riflettendo seriamente sulle implicazioni del fatto che la musica viene sempre più spesso ascoltata in cuffia, modalità decisamente secondaria e trascurabile molti anni fa, e che ora invece condizionerà non poco la ‘confezione sonora’ della musica. “Purtroppo”, dico io: ci sono musiche che non possono prescindere da una certa componente di ‘impatto fisico’ e di spazialità, che un ascolto in larga misura artificiale come quello in cuffia non può trasmettere (e non sto parlando solo di ‘cuffiette’, auricolari bluetooth con ‘soppressione di rumore’ et similia…).

Altro esempio: da qualche settimana vorrei parlarvi di un disco veramente importante, tra l’altro di musicista che amo moltissimo: ahimè, nonostante vari ascolti con dispositivi diversi stento a ‘metterlo a fuoco’ a causa di una ripresa sonora a mio avviso piuttosto discutibile, che offusca e depotenzia la musica e le sue dinamiche interne.

So bene che i musicisti non amano ritornare su quello che hanno realizzato in studio, molti non possiedono nemmeno i loro album. In parte capisco questo atteggiamento, ma mi sia consentito rammentare che anche la più brillante ed elettrizzante performance live rimane sì e no nella memoria di una manciata di spettatori. Memoria labile ed ingannevole, tra l’altro. Viceversa le registrazioni rimangono, e su quelle si viene giudicati e ricordati… averne cura, quindi ….  La nonchalance a riguardo gioca brutti tiri: basti pensare alla leggenda secondo cui Freddie Keppard rifiutò con diffidenza e supponenza l’occasione di registrare il primo disco di Jazz, lasciando via libera ad un intraprendente italo-americano, Nick La Rocca, un ‘diversamente bianco’ quindi. Con tutte le polemiche e recriminazioni che ne seguirono…. Milton56

E chiudiamo con il pioniere della registrazione in economia. E dell’overdubbing, cosa che a suo tempo scatenò autentiche guerre di religione. 1955. Questo straordinario ‘Requiem’ ha un dedicatario implicito, tanto è gigantesco: ma l’anno scorso anche il suo ricordo è stato vittima del virus, passando quasi sotto silenzio…

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