Goin’ Ahead

Una preziosa risorsa offerta da Tracce di jazz ai suoi curatori, fra le molte altre, è quella di disporre di un osservatorio privilegiato sull’andamento della nostra passione. Monitorare l’interesse dei lettori per i contenuti proposti sul magazine consente di stendere una mappa, certo un pò parziale, ma significativa, dato il nutrito parterre dei nostri seguaci, degli orientamenti prevalenti fra gli appassionati. Consulto quindi, periodicamente, anche in questa ottica, le statistiche del sito sui dati di lettura. Confronto i risultati con le informazioni circa i lettori raggiunti tramite le pagine social di Tdj. Poi mi capita magari di ascoltare alcuni podcast dedicati al jazz, fra i quali mi è caro citare almeno, anche per affinità di ragione sociale, “Jazz Tracks” diffuso sulle piattaforme dedicate la domenica mattina da Danilo Di Termini. Ciò che ne ricavo mi fa sorgere un interrogativo che da un pò di tempo mi ronza in testa: non sarà che la maggioranza di appassionati di jazz sta omaggiando una reliquia? Mi spiego. Se si parla, su uno dei media citati, di Coltrane, Davis o Chet Baker, interesse e visualizzazioni si impennano in poche ore, mentre se compaiono nomi nuovi, sconosciuti ai più, o proposte inquadrabili a fatica nei canoni del linguaggio, percepisco, (sempre in base alle statistiche) una certa diffidenza, un passare oltre, bilanciabile solo, da parte di chi scrive, con un’ opera di rilancio di tali contenuti che consenta di non vanificare del tutto la proposta. Preciso subito che ovviamente i nomi citati, come tutti quelli dei grandi maestri del genere, sono fra quelli che ho ascoltato maggiormente e che mi hanno fatto amare questa musica ( a partire, pensa un pò, da un film, “Round Midnight” del 1986). E’, d’altro canto, noto l’amore del jazzofilo per la tradizione, termine da intendersi in senso ampio, che coinvolge sia gli elementi storici fondamentali di questa musica che le piccole abitudini, come, ad esempio, il ricordare i protagonisti passati a miglior vita, e, data l’età media non proprio adolescenziale, è anche legittimo che ciascuno rimanga legato sentimentalmente ai nomi tramite i quali si sono dischiuse le porte della passione. Ma dal 1959, “l’anno che rivoluzionò il jazz” in poi molto, moltissimo è successo e restare collegati esclusivamente a quei tempi andati, ripercorrere tramite i caposaldi, le ristampe, i live inediti ed i filmati solo quelle stagioni rischia di far perdere qualche occasione. Ci sarà chi sostiene, magari non del tutto senza ragione, che ciò che “è venuto dopo” non regge il paragone con gli esiti di quelle gloriose annate, ma se ciò che muove una passione è (anche) il piacere della scoperta, l’entusiasmo nel tastare il polso all’attualità e magari osservare come la tradizione assume nuovi significati, allora lo sguardo deve essere rivolto anche in avanti.

Calando queste impressioni nella fase attuale di timida ripartenza post lockdown delle attività legate a concerti dal vivo, vien da pensare che un briciolo di curiosità e coraggio in più sia addirittura necessario oggi per superare quella pigrizia che inevitabilmente, dopo oltre un anno di ascolti solo casalinghi, sta condizionando tutti. Beninteso, chi scrive non si esime in alcun modo dal richiamo, spesso infatti mi capita di “costringermi” a scegliere un ascolto in base ai ragionamenti sopra riportati. Quasi sempre senza pentirmi della scelta e grato che qualcuno, anche pochi, possano incuriosirsi, che so, al nuovo disco di Florian Ross o Michael Wollny. Magari fra un live inedito di Dexter Gordon ed una ristampa di Bill Evans.

4 Comments

  1. ‘Looking Ahead’…. Era il titolo di un album di Cecil Taylor. Certo, guardare avanti dovrebbe esser sempre il primo comandamento del jazzofilo. Ma oggi siamo in tempi in cui non è facile orientarsi, e l’ ‘Avanti’ e l’ ‘Indietro’ sono direzioni di problematica decifrazione. In parte questo dipende da una produzione discografica forse eccessiva, non adeguatamente meditata e poco caratterizzata e concentrata. Non si può chiedere all’ascoltatore medio l’attitudine del cercatore d’oro, chiamato a setacciare tonnellate di ghiaia per sperare in una pagliuzza dorata. Poi va tenuto presente che a partire dagli anni ’80 circa, questa musica non si evolve più seguendo tendenze lineari e decifrabili, ma è esplosa in una sorta di ‘diaspora policentrica’ che non facilita l’ascoltatore nell’individuare percorsi di esplorazione ragionati. Aggiungiamoci anche il sostanziale bando che colpisce il jazz nel nostro paesaggio sonoro quotidiano, che rende di fatto impossibili scoperte casuali dovute ad ascolti occasionali, e le riluttanze a nuove esperienze d’ascolto diventano scontate. Proprio per questo sono di importanza fondamentale i vari podcasts che segnaliamo in fondo alla pagina e che, ognuno secondo i propri canoni, cercano di fornire una visione di quanto si muove sulla scena, soprattutto all’estero. Anche perché suppliscono alla totale estemporaneità ed imprevedibilità della programmazione di quell’oretta settimanale che RadioTre dedica al jazz: rinvii e soppressioni dell’ultimo minuto sono ormai la hanno trasformats in una specie di rodeo per l’ascoltatore. Quanto alla ‘musica della rinascita’, duole ripetermi, ma è necessario che i musicisti si rendano conto che questo è un momento in cui è necessaria una musica con salde radici e con potenti valenze espressive ed emotive… bisogna tenerne conto, e rinviare a tempi meno eccezionali lavori strutturalmente privi di approdi certi e percepibili. Ovviamente ‘my five cents’, come sempre. Milton56

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  2. Condivido in pieno il pensiero di Milton56.
    Aggiungo che, per ognuno di noi, tempo e interessi guidano inevitabilmente ad ascolti selettivi. La programmazione radiofonica pubblica italiana è sconfortante per evidente constatazione. Possono aiutare altri podcast (RSI, Radio Popolare) che vedo ben segnalati qui dentro.
    Va anche considerato che per alcuni, io sono fra costoro, il jazz è sì la passione musicale principale, ma ve ne sono anche altre e, per esempio, la classica porta via parecchio tempo vista la durata non certo breve di sinfonie, concerti per strumento solista e orchestra e via discorrendo e anche altre musiche contigue al jazz come il rock o il blues sono interessanti e degne di ascolto Per cui, alla fine, dopo tutto questo, quanto tempo rimane per ascoltare Craig Taborn o Julian Lage?
    Posso dire, per esperienza personale, che anche amici e conoscenti d’oltreoceano che vantano possibilità di ascolti live in loco assai più estese di noi italiani, contingenza pandemica a parte, spesso si ritrovano in prevalenza a comprare ristampe dei vecchi maestri, talvolta persino più copie dello stesso lavoro (cd, shm-cd, sacd, lp, mobile fidelity).
    Va detto che le varie piattaforme digitali disponibili possono comunque consentire di guardare oltre Mingus, Monk e compagnia e che avere le “orecchie aperte” fa sempre bene, visto che se vogliamo sentire jazz dal vivo è ai Taborn che dobbiamo rivolgerci.

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    1. Roberto, condivido il tuo invito ad usare lo streaming come strumento di esplorazione. Molti ascoltatori avvertiti, informati del degrado della condizione dei musicisti generato dall’attuale gestione di questo canale, hanno sviluppato una sorta di ‘obiezione di coscienza’ nei riguardi di questo canale, e per motivi nobilissimi. Ma bisogna anche condiserare che se dopo tutto anche artisti molto critici e polemici verso il Sistema Streaming continuano a caricarvi i loro lavori, un motivo c’è: cercano di ampliare il loro pubblico, offrendogli un’occasione di avvicinare in modo facile e relativamente disimpegnato la loro musica. Siccome si tratta di un sacrificio non da poco (non solo economico, ma anche per le note approssimazioni e superficialità con cui i servizi presentano musiche che non siano meri prodotti da jukebox), direi che profittarne è necesssario: ovviamente se scocca la scintilla, è doveroso poi sostenere i musicisti con acquisti diretti, partecipazioni a concerti etc. Certo è che nel lunapark dello streaming occorre entrare con le idee chiare e senza farsi prendere da frenetiche bulimie. Milton56

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  3. Sono d’accordo sul rischio jukebox dello streaming direi, sempre in agguato.
    Sapevo che dietro la programmazione del canale Rai di filodiffusione di musica leggera c’è stato per anni Adriano Mazzoletti il quale inseriva finestre d’ascolto opportunamente dedicate al jazz.
    Oggi siamo di fronte a cataloghi molto corposi, per non dire sterminati dove è difficile scorgere una supervisione critica e ponderata.
    Ecco, provo a mettermi nei panni di un neofita, magari un giovane (uno dei rari, temo…) che si avvicina all’ascolto del jazz…l’effetto “marmellata” o “minestrone” è concretamente plausibile.
    Vi è poi il capitolo dei compensi agli artisti che costituisce un aspetto sicuramente problematico di queste piattaforme che, come dici tu, deve essere integrato da acquisti fisici o digitali delle opere e dalle esibizioni che tutti ci auguriamo possano ritornare ad una frequenza ben maggiore di quella attuale.

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