Critics Poll 2021: un bollettino parrocchiale ?

Il Down Beat Critics Poll 2021 è pubblicato sul magazine nel prossimo numero di agosto e, come ogni anno, qualche riflessione è d’obbligo. Non tanto sui vincitori ma sui criteri e sulle impostazioni del referendum. Sappiamo in modo ormai consolidato che la critica statunitense è miope e conservatrice. Miope perché non vede al di fuori degli States e considera Rising Star musicisti affermati in età quasi da pensione semplicemente perché non mainstream rispetto ai gusti imperanti.

Qualche esempio? Su una diecina di pagine dedicate al Critics Poll, diverse centinaia di nomi, solo poco più di una ventina non hanno nazionalità statunitense o non vivono negli Stati Uniti. Tra loro anche qualche italiano, Nico Gori Stefano Bollani Pasquale Grasso, insomma il solito bollettino parrocchiale come lo chiama Stef Gijssels il fondatore di Free Jazz  Blog sulla sua pagina Facebook.

E poi, giusto per esempio, tra i Rising Star ci sono Mats Gustafsson  58 anni, Nate Wooley (46) e Peter Evans (40). Augurando a tutti loro lunga vita potremmo magari trovarli nelle categorie maggiori tra una ventina d’anni.

Per concludere, dando come sempre una importanza relativa a questo tipo di referendum, va comunque dato credito alla affermazione conclusiva di Gijssels “che la visione del mondo della critica jazz negli Stati Uniti ha bisogno di un urgente aggiornamento”.

Il link per leggere il numero di Down Beat :

http://www.downbeat.com/digitaledition/2021/DB21_08/DB21_08.pdf?fbclid=IwAR19ZJ7HPrfDkHKWvPrpriqjvb48zn821XoEBxKgzo9Okd5mnJpipz9ZtTU

https://www.freejazzblog.org/?fbclid=IwAR1Paz_ccSe0PoO4ckta3NN7VLTwFeeXbDR-alKQM0JU7FT-ay83N_-9M7w

5 Comments

  1. Beh, Down Beat è da sempre il Corriere della Sera del jazz, persino la nostra Musica Jazz al confronto sembra una sonda spaziale in navigazione verso galassie ulteriori. Sordità verso quello che accade in Europa? Gli States sono sempre stati alquanto ‘autocentrati’, in questo momento di seria involuzione ed introflessione (e non parlo solo di politica, ma anche di maccartismi culturali che impazzano incoltrollati…) sono proprio una vera e propria isola, e pure con il complesso dell’assedio. E poi diciamocelo con franchezza: se soprattutto negli anni ’80 dall’Europa spirava un vento fresco capace di attraversare l’Atlantico e sedurre, oggi non è più quel momento, anche per un certo ‘separatismo pregiudiziale’ che caratterizza la scena europea. Aggiungiamoci il fatto che anche per motivi pratici (permessi di ingresso, corporativismi sindacali) per i musicisti europei è difficile farsi conoscere sui palchi americani (perchè da quelle parti è lì che si consolidano le reputazioni, e di etichette discografiche europee di statura globale ne è rimasta ormai solo una, tra l’altro con caratterstiche alquanto idiosincratiche e con una propria estetica ormai piuttosto autoreferenziale). Infine non dimentichiamo che negli States il successo ed il talento si misurano sempre e solo in dollari, come osservava sarcasticamente Miles Davis, che pure era tutt’altro che un romantico sognatore. In ogni caso Down Beat non esaurisce certo lo spazio della pubblicistica jazzistica professionale degli USA, per me ad esempio Jazz Times è di gran lunga più interessante e tra l’altro organizza un poll che prevede una sezione aperata al pubblico dei lettori, laboratorio di grande interesse che dovrebbe esser attentamente considerato anche da noi. Milton56

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  2. Concordo in gran parte con il commento di Milton.
    Premettendo che non ho molto tempo a disposizione e che alla lettura della critica musicale preferisco di gran lunga l’ascolto diretto attraverso ricerche personali in rete e spunti offerti più dagli appassionati che non dai critici, tuttavia ho avuto modo grazie a contatti internettiani americani e canadesi di conoscere altri magazine e blog alternativi a Downbeat e di trovarli più stimolanti e ricercati di ciò che propone Downbeat.JazzTimes per quel poco che conosco è certamente più interessante.
    Se posso permettermi, trovo un po’ stucchevoli le polemiche tra fazioni: conservatori da una parte e avanguardisti dall’altra.
    Se c’è una cosa che riscontro (e apprezzo) più spesso tra i jazzofili d’oltreoceano rispetto a noi europei è l’assoluta naturalezza e trasversalità di gusti e ascolti anche oltre i confini del jazz e della Black music lasciando stare steccati che, per primi, sono i musicisti stessi nella loro attività a rifiutare.
    Infine, credo che valga la pena di menzionare il catalogo dell’etichetta tedesca ACT che mi pare assai meno idiosincratica di Herr Manfred Eicher e possa trovare maggiori riconoscimenti grazie anche alla folta presenza di artisti americani.

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  3. Le critiche che si rivolgono a Down Beat, probabilmente giuste, sono le stesse che si potrebbero rivolgere al TopJazz italiano, persino a maggior ragione. Se la critica americana è miope e conservatrice, cosa dobbiamo dire di quella italiana che nomina sempre gli stessi e le stesse cose da decenni disegnando un panorama musicale iperristretto e ammuffito? la divisione tra presunti conservatori e presunti avanguardisti da noi è persino da rovesciare, ma in ogni caso fa ridere. Tutta l’argomentazione pare richiamare il bue che dà del cornuto all’asino,

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    1. Finalmente un po’ di sano ‘dibbbattito’ :-). Certamente, se New York piange, sicuramente Roma non ride, del tutto d’accordo. Forse con un’aggravante a carico di Down Beat: che lì c’è una scena musicale ora percorsa da fermenti ed inquietudini impensabili qui da noi. Anch’io ormai salto a piè pari le categorie maggiori del nostro Top Jazz, soffermandomi su quelle dei talenti emergenti, dove si fanno ancora discrete scoperte (salvo poi rendersi conto che in molti casi si tratta di ‘emigranti creativi’ già da anni all’estero, magari sin dai tempi della loro formazione). L’indubbia ripetività del poll nostrano può però anche esser messa in conto ad un fenomeno tipico della nostra scena: esiste senz’altro un vistoso gap di formazione tra i jazzisti italiani che hanno debuttato tra gli anni ’50 ed i primi anni ’80, che hanno beneficiato di esperienze e di scambi molto più profondi e formativi con la scena internazionale e soprattutto con quella americana, e quelle successive. Una generazione ‘cresciuta sul palco’, come mi è capitato di dire in passato. Dopo queste opportunità si sono gradualmente affievolite, e questo vuoto è stato sostituito da una formazione tecnica di stampo accademico, e da un certa autoreferenzialità ed intellettualismo nell’ispirazione. Anche perchè va obiettivamente riconosciuto che queste generazioni successive non hanno le stesse occasioni di pratica musicale e di relazione con il pubblico di cui hanno goduto con grande intensità i loro ‘fratelli maggiori’ in anni di ben altra vitalità della società italiana rispetto a quelli attuali (insterilimento che va molto al di là della piccola scena del jazz per investire tutto il settore della cultura e delle attività creative). E questo gap di esperienze formative si sente eccome nel confronto diretto che un sondaggio competitivo comporta…… è un paradosso, ma a mio avviso è così. Certo, poi c’è il problema della staticità e dell’invecchiamento del ‘panel’ dei votanti, una platea di professionisti che spesso non ha grande contatto e conoscenza del pubblico più ampio. Siccome quest’ultimo è ormai quasi insondabile, salvo ripiegare sulla lettura degli ascolti dello streaming (peraltro oggetti di divinazione, più che di piana lettura), sarebbe utile per tutti prevedere una sezione del Top Jazz che prevedesse la partecipazione del pubblico, ovviamente in forme che escludano grottesche manipolazioni che già si sono viste negli anni scorsi e che consentano di selezionare il nocciolo duro del pubblico di questa musica. Credo che anche i ‘professionals’ della scena jazzistica (e qui parlo soprattutto di direttori artistici, organizzatori, discografici, programmatori radiofonici – i pochi sopravvissuti) ne ritrarrebbero preziose conoscenze e forse anche qualche ispirazione capace di smuovere la stagnazione che da tempo abbiamo sotto gli occhi. Ovviamente my five cents, come di consueto. Milton56

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  4. Concordo in buona parte con Milton56 osservando più semplicemente che l’interscambio proficuo con i musicisti americani di un tempo si è volutamente affievolito per favorire un progressivo processo musicale autarchico riscontrabile anche a livello concertistico in cui ci si è illusi di potersi affrancare totalmente dagli stimoli di una scena americana comunque più interessante sia per quantità che per qualità. D’altronde qualsiasi processo di chiusura non solo in ambito culturale e musicale rende il processo creativo progressivamente degradato e alla lunga inerte anche dal punto di vista del far crescere nuove leve. Insomma il sovranismo non è certo un processo che è maturato solo in politica ed ora manifesta i suoi effetti deleteri anche in altri insospettabili ambiti.

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