CARTOLINE DELL’IMPOLITICO – 1. Billy Hart Quartet, Blue Note Milano

Onore al merito, la nuova gestione del noto locale milanese ha rotto la pesante coltre di silenzio musicale che già da tempo incombe su Milano assemblando in corsa il cartellone di un minifestival estivo che ha annoverato a sorpresa un parterre di pregevoli gruppi di prima fila sulla scena americana, aggiungendoci anche il fuori programma di una Dee Dee Bridgewater acciuffata al volo ed abbinata ad una pregevole band italiana. Mi sbaglierò, ma in via Borsieri mi sembra soffiare un’aria più frizzante e stimolante rispetto al passato, accompagnata da una più disinvolta e duttile iniziativa: osserveremo da vicino, naturalmente.

Vedere in questo roster il Billy Hart Quartet è stato tutt’uno con l’acquisto dei biglietti. Billy Hart, un batterista sottile ed aereo, di quelli ‘di polso’ come li chiamo io, gli eredi dei miei idoli Billy Higgins e Ed Blackwell; Mark Turner, un sax tenore che con bello sprezzo dei trends  continua convintamente e creativamente nella linea dei Warne Marsh e dei Lee Konitz (prima maniera); l’affascinante pianismo introverso e meditativo di Ethan Iverson, anche lui erede legittimo della conventicola tristaniana; ed infine il basso di Joe Sanders, che deve avere il suo perché se è stato scelto da un leader di consumata esperienza e con oltre 60 anni di musica sulle spalle.

Il quartetto in una sua idiosincratica lettura di Coltrane, un nume molto invocato in questi giorni. Non a caso……

Una ‘ripassata’ agli ultimi album del quartetto, ed eccomi lì davanti a loro. Hart porta splendidamente i suoi ottant’anni, e la serata lo vedrà in vena di presentazioni dei brani che oscillavano tra l’aforistico ed il sapienziale. Turner risulta invece un po’ ingrigito, ma sempre asciutto e dinoccolato, somiglia alla sua musica. Iverson sempre impeccabile, dal look formale non si stenta a riconoscere l’acuto saggista che su Jazz Times inanella con impressionante regolarità articoli sulle sue pietre miliari.

E la musica? Ohibò, in parte ‘non pervenuta’, come dicevano i bollettini meteo di una volta dei siti da cui nulla era giunto. Per un gruppo così composito e pieno di mezzi toni purtroppo abbiamo avuto un suono che concedeva eccessivo spazio alla batteria: sta bene, Hart è il leader, ma non è certo Billy Cobham (grazie a Dio!), ce lo ricordiamo con mano leggera, un maestro della scansione sui piatti e del controllo della dinamica. Ed invece metà del master è suo, mentre i tre compagni si devono stringere in quella rimanente.

Scelta aprioristica del tecnico del suono? Magari un ‘ripassino’ simile al mio sugli ultimi album (nel caso di specie tra l’altro tecnicamente impeccabili) sarebbe utile per ‘inquadrare’ la band volta per volta di scena. Ma è anche possibile mettere in conto lo squilibrio ad un certo protagonismo mostrato da Hart, che spesso ha voluto travestirsi da Art Blakey, imitandone a suo modo i marcati accenti: che qui sono diventati però dei violenti e fragorosi leaks da profondo rosso dei Vu-meter che finivano per avere una valenza di arresto e di cesura, al contrario di quelli di Blakey che erano sempre elemento propulsivo del discorso musicale. Probabilmente va messo in conto all’eccentricità dell’età estrema anche qualche passaggio in cui Hart ha inseguito il leggendario drumming danzante dell’indimenticabile Max Roach. Per fortuna nei momenti di accompagnamento è riemerso l’amato ‘polso’ di cui sopra, la sua cifra più autentica: il camaleontismo è stato riservato ai momenti solistici (parecchi, però…).

Nel compresso spazio sonoro residuo i partner hanno cercato di ricavare le loro miniature. Grazie anche all’intrinseca potenza dello strumento, il tenore di Turner è riuscito a mandarci quello che mi è sembrato un segnale di novità: un fraseggio più mosso e variato che contrasta in parte con le lunghe linee melodiche orizzontali che sembravano parte costitutiva del suo personalissimo stile e ne rivelavano la rivendicata discendenza del primo Lee Konitz (scelta di stile di non poco conto).   

Ad evocare completamente l’inclinazione ‘notturna’ di questo raffinato ed ormai consolidato quartetto ci voleva il pianismo interiorizzato e sottile di Iverson, che purtroppo ha fatto più di tutti le spese del mixaggio sbilanciato. I suoi pacati mezzi toni si intuivano appena nell’accompagnamento (pregevole ed essenziale all’economia del gruppo) e richiedevano buona concentrazione anche negli (ahimè) radi passaggi solistici.

E dunque, qual è il referto del fan di lunga data? Per me ‘Rivedibile’, come si diceva nelle visite di leva di qualche decennio fa; solo che qui l’esame di revisione si rischia di farlo sulla soglia della RSA (o peggio…), visti tempi che corrono sulla scena musicale e nel mondo in genere. Esco quindi con un filo di maliconico rimpianto, e con la voglia di riprendere in mano gli album ben frequentati.

Ad ideale risarcimento, i giorni immediatamente successivi riserveranno emozioni non da poco, anzi una un vero ‘sturbo’, come dicono nell’Urbe. Le relative ‘cartoline’ stanno per esser imbucate, quindi ‘stay tuned’. Milton56   

  Una recentissima clip del Billy Hart Quartet ad Umbria Jazz qualche giorno fa: a S.Giuliana suono perfetto (vorrei ben dire, con quello che costano i biglietti…), l’equilibrio e la fisionomia di gruppo ne guadagnano

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