Nelle casate feudali il destino dei figli cadetti era segnato: al primogenito il feudo, al cadetto il nome, le armi ed un cavallo. E via per le strade del mondo, nel migliore dei casi a fornire materia per poemi cavallereschi, il più delle volte ad alimentare le file delle compagnie di ventura che per un soldo in più cambiavano bandiera.
Nella illustre e ramificata dinastia Marsalis, sedente nientemeno che in New Orleans, il cavallo e la lancia con lo stendardo sono toccati a Branford, che da subito ha preso dimestichezza con le strade del mondo musicale, accumulando un bagaglio di esperienze vastissimo e quantomai diversificato. Basti ricordare la brillante collaborazione con Sting, uno dall’occhio lungo che lo volle in uno dei suoi migliori e più personali album, ‘The Dream of the Blue Turtle’, che trasuda vistosamente gli aromi jazz e blues portati in dote da Branford. Personalmente trovo di gran lunga più affascinante la sua bisaccia di cavaliere errante, che non il feudo dell’erede designato Wynton (il Lincoln Center, oggetto di contrastanti opinioni a tutt’oggi).
Un cugino primo che mi è sempre stato simpatico, il prof.Gordon Summers. Questo bel brano non esisterebbe nemmeno senza il nostro Branford. En passant, ogni riferimento alle cronache correnti di questo Paese è puramente casuale…..
In un’Arena S.Giuliana battuta da una fredda brezza del tutto surreale in una serata di pieno luglio, salgono sul palco di Umbria Jazz oltre a Branford con i suoi sax tenore e soprano, Joey Calderazzo al piano, Eric Revis al basso e Justin Faulkner alla batteria. Sono le 23, ed al nostro tocca l’ulteriore onere di succedere ad un set precedente di straordinaria intensità (prossimamente su questi schermi, non temete). Nell’oceanica platea dell’Arena si sono aperti dei visibili vuoti: certamente non è bello, ma è comprensibile in questo genere di serate ‘combinate’, anche se di livello altissimo come quella del 14 luglio a Perugia.
Ma il nostro cavaliere e la sua piccola schiera di sperimentati veterani non sono certo tipi da perdersi d’animo su di un terreno sfavorevole: anzi, marcano subito il cambio d’atmosfera contrapponendo al precedente sciupio di lucido esprit de finesse un set caratterizzato da grande energia e da colori sontuosi.
Non equivochiamo: quella che viene offerta al pubblico di Perugia non è una rovente blowin’ session del genere di quelle tipiche dell’hard bop degli anni ’50. Tutt’altro: oltre ad una smagliante padronanza strumentale, la band di Branford ad ogni battuta rivela con assoluta nonchalance una raffinata e profonda conoscenza dell’ormai secolare cultura musicale afroamericana. Possesso ed amore delle radici che vengono con elegante disinvoltura alternate a fughe in una sofisticata e dinamica contemporaneità.
Questo è particolarmente evidente nei grandi spazi concessi all’estroverso Calderazzo, che alterna momenti adrenalinici e quasi pirotecnici e con altri di grande misura e raffinatezza. E’ evidente la grande fiducia che il leader ripone in lui, è il premio una lunga fedeltà costruita in anni di milizia comune. Lo stile del pianista è proteiforme e quanto mai mutevole, talvolta anche un poco di più di quel che il materiale richiederebbe: ma in compenso non c’è spazio nemmeno per un istante di noia, sempre in agguato anche nelle lunghe cavalcate più ispirate. Ma la vera centrale di questa raffinata, ma incessante energia è la formidabile ritmica costituita da Revis e Faulkner: scattante, muscolare e pulsante come poche, perfetta nel sostenere i ricorrenti momenti di sottile astrazione che punteggiano gli assoli di Marsalis.
E’ affascinante assistere di brano in brano all’incessante dispiegarsi della ‘doppia personalità’ del leader Branford: al soprano ricco di contemporanea astrazione e sottilmente lirico, mentre quando imbraccia il tenore si mette in moto una sorta di ‘macchina del tempo’ che lo porta ad evocare a volte con un filo di affettuosa ironia (in questo jazzman purosangue) e con raffinata cultura momenti topici della storia di questa musica, dagli honkers al primo Rollins dei calypso. Ma il tutto sempre con lucida sensibilità contemporanea: è come vedere quelle eleganti foto odierne che ricreano le mode d’antan. Senza contare che quando la macchina del tempo arretra sin ai primordi di questa musica Brandford non riesce a dissimulare una raffinatezza stilistica e una sofisticazione strumentale che gran parte dei modelli originali erano ben lungi dal possedere.
Alla fine il pattuglione di entusiasti che hanno resistito ai malevoli spifferi di S.Giuliana vengono premiati a sorpresa da un fuori programma di gran lusso. Mentre si decide il bis preteso a gran voce dalla platea, Marsalis inizia a gesticolare vistosamente verso le quinte: un attimo e lo sgabello del piano si libera ed un variopinto rasta balza al posto di Calderazzo ed attacca un’indiavolata linea stride che trascinerà il resto della band per altri dieci minuti filati. E’ l’astro nascente Emmett Cohen, del tutto irriconoscibile rispetto all’acchittata mise della copertina del suo ultimo album, che completa alla perfezione questo ‘ritorno al futuro’. Milton56