E’stato pubblicato dalla newyorkese Dot records ai primi di settembre il nuovo album del sassofonista Dave Liebman, in quasi contemporanea con il suo 75 mo compleanno. “Selflessness” è la sesta esplorazione nel territorio di uno dei suoi mentori, John Coltrane, visto suonare da un Leibman quindicenne che ne ricevette una folgorazione destinata a segnare vita e carriera. “Once you see the light,” spiega nella sua auto biografia “What is it” “you can never turn away from it, though you may try. I went to see Coltrane from then on, anytime I could.”
Il disco, che segue “Homage to John Coltrane” del 1987 , “Joy: The Music of John Coltrane” con la Big Band, di sei anni dopo, “John Coltrane’s Meditations” del 1997 , “Lieb Plays the Blues à la Trane” del 2010 e “Compassion” del 2017 in coppia con Joe Lovano, vede il ritorno del leader al suo strumento prediletto, il sax soprano.
Titolo ripreso da un’opera postuma del sassofonista di Hamlet, pubblicata da Impulse nel 1969 unendo esibizioni dal vivo a Newport nel 1963 con la title track incisa in studio nel 1965 con la presenza di Pharoah Sanders, “Selflessness” comprende nove brani di Coltrane rivisitati dal quintetto stabile di Liebman Expansions con Matt Vashlishan ai fiati, Bobby Avey alle tastiere, Tony Marino al contrabbasso ed Alex Rits alla batteria. Ad un primo, fugace ascolto, siamo di fronte ad una fedele e realistica rappresentazione del variegato universo sonoro di Liebman, con la costante alternanza dei quattro elementi naturali che caratterizzano la struttura dei vari episodi: la terra della ritmica scandita spesso in senso funky, il fuoco dei soli del soprano che in almeno due episodi, “Mr. day” ed una percussionistica “One up, one down”, raggiungono vette espresssive altissime, l’eterea atmosfera degli episodi più spirituali “Peace on heart” ed una conclusiva toccante “Dear Lord”, con Leibman impegnato al flauto di legno, ed infine l’andamento “acquatico” di episodi come “ My favourite things” giocata in scioltezza dopo una lunga intro di pianoforte. Grande gioco di squadra e spazi solisti equamente suddivisi, con Avey in alternanza fra il pianoforte acustico ed apporti dell’elettronica, come nelle distorte visioni di “Compassion”.
Alla fine l’impronta di Coltrane resta ben presente, ma in un quadro evolutivo che coglie molti spunti del jazz contemporaneo.
Musica per la quale bisognerebbe sempre trovare il tempo.
Un disco coltraniano immune da ‘coltranismi’. Interessante…. Milton56
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