CARTOLINE – DAVID MURRAY TRIO A PADOVA JAZZ

Sempre a caccia di musica (ogni lasciata è persa, soprattutto di questi tempi), approdo a Padova per afferrare la coda del festival di lì che è partito già da una settimana. Il cartellone era particolarmente fitto ed intrigante, con scelte che si discostano vistosamente da quelle usualmente banali del nostro circuito.

Del resto Padova è una delle pochissime roccaforti jazzistiche nostrane, dove una intensa attività che risale a decenni addietro (si può risalire addirittura allo scorcio finale degli anni ’50) ha creato un bel pubblico, attento ed informato, e con vistose presenze giovanili: una platea che ha fatto una gran differenza nelle serate cui ho assistito.

Una sede di un certo prestigio….. a Murray è piaciuta molto la sua acustica

A cominciare proprio da quella del 17 novembre: siamo nella fastosa Sala dei Giganti del Palazzo Liviano, direi quasi ‘espugnata’ grazie alla tenacia dell’infaticabile Gabriella Piccolo Casiraghi, anima del Festival: non c’è una sedia libera di quelle consentite dal distanziamento. Dopo un prologo di cui è doveroso parlare in altra sede, siamo in attesa del trio di David Murray, con Brad Jones al basso ed Hamid Drake alla batteria.

Come i lettori di lunga data sanno, sono un sostenitore di lunga data del sassofonista californiano: si può dire che anche per ragioni anagrafiche siamo cresciuti insieme, lui come uno degli ultimi fuoriclasse del jazz (uno di quelli che con due note li riconosci al volo) ed io molto più modestamente come semplice ascoltatore. Ma questo non mi impedisce di notare che le ultime occasioni dal vivo del ‘Prima’ siano state caratterizzate da vari momenti di opacità (in un caso si è rasentato un imbarazzante flop), sembrava quasi che il nostro avesse perso la sua mano esperta e sicura di leader nell’assemblare soprattutto quartetti destinati ad accompagnarlo nei suoi lunghi soggiorni europei con prestazioni alla sua altezza. Quest’anno un paio di sue apparizioni come ospite della Lydian Sound Orchestra avevano rincuorato non poco circa la sua tempra di solista, ma aspettavo ancora il ritorno del caporchestra.

Ma Padova ho assistito a questa reentreè, perdipiù in uno degli organici prediletti e più congeniali a Murray, quello del trio; purtroppo i tristi tempi che corrono non consentono di sperare di rivederlo alla testa dei suoi famosi ottetti, per non parlare delle big bands.

Sin dalle prime battute, la mia impressione è che in una carriera varia e tumultuosa, che si è sviluppata dalla fertile stagione dei lofts newyorkesi dell’ultimo scorcio degli anni ’70 sino agli anni ‘10 del nuovo millennio sia venuto il momento della maturità e della riflessione. Murray è stato autore prolifico, secondo qualcuno anche sovrabbondante ed eccessivo: ma va osservato come l’inabissarsi di alcune gloriose etichette come India Navigation e DIW- Disk Union abbia trascinato con sé oltre che cose prescindibili anche vere perle, ormai irreperibili persino nel mare magnum dello streaming. Ed anche per quanto riguarda la produzione discografica dell’ultimo decennio (caratterizzata da alcuni titoli veramente notevoli), si nota una battuta d’arresto del Murray leader che ormai dura da qualche anno.

Il Murray ascoltato a Padova è apparso cambiato: il suo famoso suono scuro e plastico, che a volte sembrava di poter toccare, è parso in qualche misura smagrito, e più raramente affilato dai suoi famosi sovracuti. Parallelamente, il fraseggio si è fatto più agile e terso, sembra alle spalle una certa torrida densità che in anni passati rappresentava una delle cifre più evidenti del riconoscibilissimo stile del californiano. Anche i convulsi legati sembrano in parte un ricordo del passato.

‘Flowers for Albert’, siamo quasi agli esordi del nostro, 1977, Bim Huis, Amsterdam. Con lui Butch Morris (sì, quello delle condutctions) alla cornetta, Stanley Crouch alla batteria (oggi è un critico, meglio un polemista) e due enormi rimpianti, Fred Hopkins al basso (uno dei più potenti e pieni mai sentiti) e Don Pullen al piano, uno dei pochissimi che hanno raccolto qualcosa del monolite Cecil Taylor

Maturità è anche inevitabilmente riflessione retrospettiva, e la scelta dei brani in programma lo ha confermato con la comparsa di alcune composizioni che riaffioravano dai roventi e creativi anni dei lofts: i ‘Flowers for Albert’ sono sempre freschi a ricordare un Ayler che Murray ha sempre sentito più come un fratello in spirito che come un’ispirazione musicale, e poi l’ ‘Obi’ , “il nostro California Dreamin’ che tante volte suonavamo con Bobby Bradford, Lawrence ‘Butch’ Morris ed altri compagni della prima ora in gran parte perduti per strada” ha ricordato Murray con una punta di insolita melanconia. Ma non sono mancate cose molto più recenti come il ‘Nektar’, che viene dritto dritto dall’ipnotico ‘Spirit Groove’ in cui il nostro è stato ospite dell’esoterico Kahil El’Zabar: disco raccomandatissimo, tant’è vero che lo potete assaggiare qui:

Un minore protagonismo strumentale del leader ha generato un trio decisamente arioso, in cui è emerso con la dovuta evidenza il basso sottile e nitido di Brad Jones, strumentista fine che mi è molto piaciuto. Era fatale che qualcuno profittasse degli spazi aperti da Murray per porsi con maggiore evidenza: ed Hamid Drake, ferma la sua nota sottigliezza, ha apportato un drumming più corposo del solito e  più scandito sui tamburi e sul registro grave del set.

Al termine di una calda e partecipatissima serata, due soli rimpianti: aver sentito Murray in un solo brano al clarinetto basso, strumento con il quale è capace di autentiche mirabilia, ed infine dover attendere chissà quanto in questi tristi tempi per veder documentato su disco questo bell’ensemble. Milton56

Per ora consoliamoci con questa clip del trio nel novembre 2020 al festival organizzato dall’Università di Siviglia, in Spagna. Il brano è di nuovo ‘Nektar’ dal disco con Kahil El Zabar

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