Cecil Taylor visto da Cesar Aira

Normalmente su Tracce di Jazz siamo soliti pubblicare articoli originali, ma qualche volta, quando l’argomento o i personaggi lo meritano, abbiamo anche fatto opera di traduzione. E’ questo il caso dell’articolo odierno, per due motivi principali: lo scritto è troppo lungo per farne un post su Facebook e, il nome di Cesar Aira, asssolutamente sconosciuto in Italia, merita un approfondimento. (TdJ)

Se c’è un autore contemporaneo che sfugge alle classificazioni, è César Aira, un argentino originario di una cittadina nella provincia di Buenos Aires chiamata Coronel Pringles, che suppongo sia un posto reale, sebbene potrebbe tranquillamente essere frutto dell’immaginazione del suo figlio più illustre.

Innanzitutto lasciatemi dire che Aira ha scritto uno dei cinque migliori racconti che io ricordi. Il racconto, inserito nella raccolta Buenos Aires curata da Juan Forn, si intitola “Cecil Taylor”. Inoltre è autore di quattro romanzi indimenticabili: Come diventai monaca, nel quale racconta la sua infanzia; Ema, la prigioniera, nel quale racconta l’opulenza degli indiani pampa; El congreso de literatura, nel quale racconta il tentativo di clonare Carlos Fuentes; El llanto, nel quale racconta una sorta di epifania o periodo di insonnia.

Aira è un eccentrico, ma è anche uno dei tre o quattro migliori scrittori in lingua spagnola di oggi.

Roberto Bolano

FRANCE. Paris. 16th arrondissement. 17 Avenue Raymond Poincaré. Centre Musical Bösendorfer. Thursday 9th March, 1989. The American jazzman Cecil TAYLOR (piano), rehearsing for the evening concert : “CECIL TAYLOR SOLO”, at the “Maison de la Culture 93” in the town of Bobigny.

CECIL TAYLOR

Alba a Manhattan. Nella prima, incerta luce, una prostituta nera sta tornando nella sua stanza dopo una notte di lavoro. Capelli in disordine, borse sotto gli occhi; il freddo trasfigura la sua ubriachezza in una lucidità stordita, un isolamento sgualcito dal mondo. Non si è avventurata oltre il suo solito quartiere, quindi deve solo camminare per pochi isolati. Il suo ritmo è lento; potrebbe tornare indietro; alla minima deviazione il tempo potrebbe dissolversi nello spazio. 

Quello che vuole davvero è dormire, ma non ne è nemmeno più consapevole. Le strade sono quasi deserte; le poche persone che di solito escono a quest’ora (o non hanno interni da cui uscire) la conoscono di vista, quindi non esaminano le sue scarpe viola con i tacchi alti, la gonna attillata con il lungo spacco, né i suoi occhi, che comunque non ricambiavano i loro sguardi vitrei o teneri. È una strada stretta, con un numero per nome, e gli edifici sono vecchi. Poi c’è un tratto in cui sono più moderne, ma in condizioni peggiori: negozi, scale antincendio che pendono da facciate a strapiombo. Più avanti, passato l’angolo, c’è il posto dove dorme fino a tardi, in una stanza in affitto che divide con due figli, i suoi fratelli. 

Ma prima succede qualcosa: cinque o sei ragazzi che sono stati svegli tutta la notte si sono fermati a semicerchio sul marciapiede, davanti alla vetrina di un negozio. La donna si chiede cosa potrebbero guardare che cosa li ha trasformati in figure da fotografia. Il gruppo è assolutamente immobile; nemmeno il fumo di una sigaretta che si alza. Cammina nella loro direzione, osservandoli, e, come se fossero un infisso a cui attaccare il filo che la tiene in piedi, il suo passo si fa un po’ più leggero. Le ci vogliono alcuni istanti per capire cosa sta succedendo. Gli uomini sono davanti a un negozio in disuso. Dietro la finestra sporca, nell’oscurità, scatole polverose e detriti. Ma c’è anche un gatto e, di fronte a lui, di nuovo alla finestra, un topo. 

Entrambi gli animali si fissano senza muoversi; la caccia è finita e la preda non sa dove scappare. Sublimemente senza fretta, il gatto tende ogni suo nervo. Gli spettatori ora non sono più semplicemente statue ma esseri di pietra: pianeti, il freddo elementale dell’universo… La prostituta bussa alla finestra con la sua borsetta, il gatto è distratto per una frazione di secondo, e questo è sufficiente perché il topo scappi . Gli uomini escono dalle loro fantasticherie, guardano con disgusto il complice nero; un ubriaco le sputa addosso, altri due la seguono mentre si allontana… e prima che l’oscurità sia svanita del tutto, avverrà un atto di violenza. 

Una storia è seguita da un’altra. Vertigine. Vertigine retrospettiva. C’è un eccesso di continuità. La trazione narrativa non può essere sospesa, nemmeno inserendo finali. Le vertigini creano ansia. L’ansia paralizza… e ci salva dal pericolo che giustificherebbe le vertigini: avvicinarsi al bordo, per esempio al bordo del baratro che separa un finale da un seguito. L’immobilità è arte nell’artista, mentre tutti gli eventi trattati nell’opera si svolgono dall’altra parte del vetro. Finisce la notte, finisce il giorno: c’è qualcosa di imbarazzante nei lavori in corso. I crepuscoli opposti cadono come gettoni in fessure di ghiaccio. Gli occhi delle statue si chiudono quando si aprono e si aprono quando si chiudono. Pace in guerra. Eppure c’è un movimento fuori controllo e fin troppo reale; rende gli altri ansiosi e fornisce il modello per le nostre ansie.

L’arte la immagina come una Crescita Girevole Infinita, e dà origine a biblioteche, teatri, musei e interi universi di fantasia. Può fermarsi, ma se lo fa, rimane un numero enorme di resti. Dopo un po’, i resti iniziano a girare e riprodursi. La moltiplicazione si moltiplica… Ma, come sappiamo, c’è solo “l’unica vita”. Da ciò ne consegue che la biografia di un artista è difficilmente distinguibile dalle prove della sua scrittura: non si tratta semplicemente di rappresentare la rappresentazione (lo potrebbe fare chiunque) ma di creare nel pensiero situazioni insopportabili. Ecco perché le biografie di solito sono così lunghe: niente è mai abbastanza per placare gli impulsi mobili dell’immobilità. Le storie cercano disperatamente di fondersi, si avvolgono in perlacei scrupoli teleologici, il vento le accende, cadono nel vuoto… Ma forse non interessa a nessuno.

E perché a qualcuno dovrebbe interessare? Le biografie sono la vita degli altri. I bambini leggono le biografie illustrate di famosi musicisti, sempre bambini prodigio, posseduti da un genio misterioso. Capiscono la musica degli uccelli e si addormentano al mormorio dei ruscelli. Gli ostacoli che si frappongono alla loro carriera non sono posti lì dalla realtà ma dal disegno didattico della storia. Queste vite sono sorprendentemente simili a quelle dei santi: la persecuzione e il martirio sono gli strumenti del trionfo. Perché tutti i santi ci sono riusciti. E non solo i santi e i bambini prodigio: tutti i soggetti delle biografie si sono succeduti; hanno vinto il concorso. Delle innumerevoli persone vissute, la Storia salva solo i vincitori, anche quando è ispirata da un moralismo umanitario. 

Per la loro essenziale banalità e le loro immutabili convenzioni, queste storie di vita non rimangono a lungo nella memoria (finiscono per confondersi l’una nell’altra), ma ciò non impedisce loro di snaturarla, inserendo diapositive definitive e cangianti che vanno dal punto A al punto B, e poi da B a C, e quando le luci si spengono, i punti si accendono; sono le anime belle che sono salite al cielo per inventare costellazioni e oroscopi. Come non guardare con sospetto quei libri, tanto più che erano e sono il nutrimento fondamentale delle nostre puerilità passate e future? “Prima” c’è il successo futuro; “dopo”, le sue deliziose ricompense, tanto più golose per essere state oggetto di profezie straordinariamente puntuali. 

Esaminiamo un caso particolare, per affinare la dimostrazione. Ad esempio, uno dei grandi musicisti del nostro tempo, la cui esistenza è indiscutibile. Cecil Taylor. Nato nel jazz, è rimasto fedele alle sue forme esteriori: i club, i bar e i festival in cui si è esibito, i gruppi strumentali che ha messo insieme, persino la strana vaga (o inspiegabile) dichiarazione di influenza (Lenny Tristano, Dave Brubeck). Ma la sua originalità trascende le categorie musicali. La sua passione era il jazz, ma anche qualsiasi altro tipo di musica, scomposta nei suoi singoli atomi e riassemblata, come una di quelle macchine celibi che hanno prodotto i sogni e gli incubi del ventesimo secolo. 

Secondo la leggenda, Cecil realizzò la prima registrazione jazz atonale, nel 1956, due settimane prima che Sun Ra arrivasse indipendentemente allo stesso risultato. (O era il contrario?) Non si conoscevano, né conoscevano Ornette Coleman, che stava facendo un lavoro simile dall’altra parte del paese. Il che dimostra che al di là del genio o dell’ispirazione di quei tre individui (e di Albert Ayler ed Eric Dolphy e chissà quanti altri), la causalità operava a un livello più alto.

Quel livello è la Storia, e la Storia ha un ruolo importante da svolgere, perché permette di interrompere le serie infinite che vengono generate dall’arte di pensare. È così che l’interruzione perde il suo falso prestigio e la sua insopportabile preponderanza. Diventa frivolo, ridondante e banale, come un colpo di tosse soffocato a un funerale. Ma la sua stessa insignificanza fa nascere la Necessità, che rende manifesta la regola della Storia. L’interruzione è necessaria, sebbene possa essere una necessità momentanea, e anche il momento stesso è necessario, e spesso sufficiente, motivo per cui diciamo che un momento è “tutto ciò che serve”.

Alla fine, le biografie sono letteratura. E ciò che conta in letteratura è il dettaglio, l’atmosfera e il giusto equilibrio tra i due. Il dettaglio esatto, che rende le cose visibili, e un’atmosfera suggestiva, d’insieme, senza la quale i dettagli sarebbero un inventario disgiunto. L’atmosfera permette all’autore di lavorare con forze svincolate dalla funzione, e con movimenti in uno spazio che è indipendente dalla posizione, uno spazio che finalmente abolisce la differenza tra lo scrittore e lo scritto: il grande tunnel molteplice in pieno giorno… L’atmosfera è una tridimensionale condizione del regionalismo e il medium della musica. La musica non interrompe il tempo. Anzi.

1956. A New York, viveva un uomo di nome Cecil Taylor, un musicista nero, non ancora trentenne, un pianista tecnicamente innovativo, un compositore e improvvisatore intriso delle tradizioni popolari e intellettuali del secolo. A parte una mezza dozzina di musicisti e amici, nessuno sapeva o riusciva a capire cosa stesse facendo. Come avrebbero potuto capire? Era al di là della portata del prevedibile. Nelle sue mani il pianoforte si trasformò istantaneamente in un metodo compositivo libero. I cosiddetti “tone cluster” che impiegò nella sua scrittura evanescente erano già stati usati dal compositore Henry Cowell, ma Cecil andò oltre, complicando le armonie, sistematizzando la corrente sonora atonale in flussi tonali, producendo risultati senza precedenti. La sua velocità, l’interazione di diversi meccanismi, l’insistenza, le resistenze intrinseche.

Viveva in un modesto appartamento in subaffitto, nella parte inferiore dell’East Side di Manhattan. Il posto era pieno di topi neri e c’era una popolazione fluttuante di scarafaggi. Porte socchiuse, la solita promiscuità di un vecchio condominio con le sue scale strette e le sue radio accese. Quello era il tipo di atmosfera. Dormiva lì per tutta la mattina e parte del pomeriggio, e usciva all’imbrunire. Lavorava in un bar che faceva parte del quartiere. Aveva già fatto un disco ( Jazz Advance) per una piccola etichetta indipendente, che non lo aveva distribuito. 

Un appuntamento per suonare nel bar, che per vari motivi non aveva funzionato, gli aveva fatto venire l’idea di chiedere comunque un lavoro, ed era lì da qualche mese, a lavare i piatti. Stava aspettando offerte per suonare in posti che avevano un pianoforte. Dato il numero di locali notturni con musica dal vivo in città in quel momento e il costante ricambio di artisti famosi e sconosciuti, le opportunità erano inevitabili. Era un momento di rinnovamento; c’era fame di novità.

Sapeva, naturalmente, che a causa della natura esigente e radicale della sua arte, poteva dimenticare di essere scoperto all’improvviso o anche gradualmente, la sua reputazione si diffondeva come increspature quando un sasso cadeva in uno stagno. Non era così ingenuo. Ma era perfettamente giustificato nella speranza che prima o poi il suo talento sarebbe stato acclamato. C’è una verità qui, e un errore: è vero che ora è celebrato in tutto il mondo, e quelli di noi che hanno ascoltato i suoi dischi per anni, a bocca aperta per l’ammirazione, sarebbero gli ultimi a dubitarne; ma è anche abbastanza facile (quasi troppo facile, in effetti) dimostrare che c’è un errore nel ragionamento.

Si potrebbe, certo, obiettare che tale dimostrazione non è altro che un volo di fantasia letteraria. Il che è vero, ma poi è anche vero che le storie, una volta immaginate, acquisiscono una sorta di necessità. Un tipo strano e raro, la cui stranezza ha un’influenza, a sua volta, sulla storia immaginata. La storia della prostituta che ha distratto il gatto non era necessaria di per sé, il che non significa che la serie virtuale di tutte le storie non sia necessaria nel suo insieme. La storia di Cecil Taylor richiede la modalità illustrativa della favola; i dettagli sono intercambiabili e l’atmosfera sembrerebbe fuori luogo.

Ma come possiamo ascoltare la musica se non in un’atmosfera, dal momento che i suoni vengono trasmessi per via aerea? 

Il bar in cui finalmente ebbe luogo la sua prima esibizione (non era propriamente la prima, perché ce n’era già stata una, ma Cecil scelse di non parlarne) era un posto dove la musica era secondaria, un sottofondo all’attesa e alla droga offerte. Ma la droga, e anche l’attesa (andavano insieme), erano così intimamente legate al tempo che l’artista si sentiva in grado di suscitare un certo interesse; tutto quello che sapeva per certo era che non avrebbe fatto scandalo, il che in un certo senso era un peccato, perché uno scandalo è un’intensificazione dell’interesse, ma non era nella sua natura gentile e contemplativa; e in un posto come quello, dove le persone rischiavano tutto, difficilmente sarebbero rimaste scioccate da un’altra interruzione della chiave dominante. 

Si preparò immaginando l’indifferenza come un piano e l’interesse come un punto: il piano poteva coprire il mondo come un paralume di carta, ma l’interesse era puntuale e reale come due vicini di casa che si augurano buona giornata. Si preparò per l’incongruenza intrinseca delle geometrie superiori. L’imprevedibile clientela potrebbe fornirgli un briciolo di attenzione: nessuno sa cosa cresce di notte (suonerebbe dopo la mezzanotte, il giorno dopo, appunto), e quando il domani appare oggi, non passa mai del tutto inosservato. Tranne questa volta. Con suo grande stupore, questa volta si rivelò essere precisamente “mai”. 

Il ridicolo invisibile si scioglie in risatine impercettibili. È stato così per tutto il set, e il proprietario ha cancellato il suo set la notte seguente, anche se non l’aveva pagato. Cecil non gli ha parlato della sua musica, ovviamente. Non riusciva a vedere il punto. È appena tornato nella sua stanza.

Due mesi dopo, la sua routine lavorativa irregolare (era passato dal lavare i piatti al lavoro in lavanderia) si è ravvivata ancora una volta quando ha accettato di esibirsi in un altro bar, solo una sera questa volta, a metà settimana. Era come il bar precedente, anche se forse leggermente peggio, con lo stesso tipo di clientela; c’era persino la possibilità che alcuni di quelli che erano stati presenti l’altra volta lo sentissero di nuovo. Ecco cosa ha pensato (che sognatore!), fuorviato dalle sue stesse ripetizioni. La sua musica raggiungeva le orecchie di una quindicina di ubriaconi, e forse quelle di una o due donne vestite di seta: orecchie piccole, nere, belle, ciascuna ornata da un bocciolo d’oro.

 Non ci sono stati applausi, qualcuno ha riso stupidamente (di qualcos’altro, senza dubbio), e il proprietario del bar non si è nemmeno preso la briga di augurargli la buonanotte. Perché dovrebbe? Ci sono momenti come quello, quando la musica rimane senza risposta. Si era fatto una oziosa promessa di tornare al bar un’altra volta (era già stato lì), di mettersi nella situazione, o meglio nella posizione, di chi ascolta musica e sa che è musica, così che immaginava come sarebbe: il pianista consumato che intuisce ogni nota mentre la suona, il lento susseguirsi delle melodie, il motivo dell’atmosfera. Ma non lo fece mai; non ne valeva la pena. Si considerava privo di fantasia, incapace persino di immaginare la realtà che lo circondava. 

Dopo una settimana, l’immagine mentale di quest’ultimo fallimento si fuse con quella del precedente, lasciandolo un po’ sconcertato. Potrebbe essere stata una ripetizione? Non c’era motivo per cui avrebbe dovuto essere così semplice, ma a volte la semplificazione va di pari passo con la complicazione.

Un pomeriggio d’autunno stava tornando a casa canticchiando mentalmente qualcosa che avrebbe tradotto in suoni non appena si fosse seduto al pianoforte (pagava a ore l’uso di uno Steinway verticale in una scuola di musica, dopo le lezioni), quando si imbatté in un ex compagno di classe del New England Conservatory. Non appena lo vide e lo riconobbe, la musica nella sua testa tacque. La realtà di quell’individuo – figlio di immigrati norvegesi, nasone, orecchie piccole – ha contaminato la strada, le auto, perfino lo stesso Cecil con dettagli empirici. 

Hanno iniziato a parlare; non si vedevano da otto anni. Nessuno dei due aveva tradito la sua vocazione di musicista d’avanguardia: il norvegese faceva quadrare i conti dando lezioni ai bambini; i suoi pezzi costruttivisti per orchestra da camera non erano stati eseguiti, nemmeno privatamente; suonava ancora il violoncello; e aveva parlato con Stravinsky. Cecil lo lasciò parlare, annuendo con simpatia, sebbene in privato si prendesse gioco di Stravinsky. Prestò maggiore attenzione quando il violoncellista disse, in conclusione, che la carriera del musicista innovativo era difficile perché, a differenza del musicista convenzionale, che doveva solo accontentare un pubblico, l’innovatore doveva crearne uno nuovo da zero, come qualcuno che prende un globulo rosso e lo modella con pazienza e amore finché non è bello e rotondo, poi fa lo stesso con un altro, e lo attacca al primo, e così via finché non ha fatto un cuore, e poi tutti gli altri organi e ossa e muscoli e pelle e capelli, lasciando per ultimo il delicato tunnel dell’orecchio con le sue incudini e martelli in miniatura…

Fu così che avrebbe potuto produrre il primo ascoltatore per la sua musica, l’origine del suo pubblico, e dovrebbe ripetere l’operazione centinaia e migliaia di volte se volesse essere riconosciuto come un nome nella storia della musica, ogni volta con la stessa cura, perché se sbagliasse una singola cellula, un fatale effetto domino porterebbe l’intera faccenda al crollo… La metafora colpì il suo sonnolento interlocutore come suggestiva, anche se un po’ estrema, e provocò una vaga risposta. Il costruttivista fu colpito dalla presenza sibillina di Cecil, dai suoi sussurri, dal suo berretto di lana. Se avesse fatto qualcosa della sua vita, invece di essere una nullità, avrebbe registrato l’incontro nelle sue memorie, molti anni dopo.

Un anno prima, Cecil aveva fatto alcuni arrangiamenti per il famoso jazzista Johnny Hodges, che, in cambio, gli aveva offerto un contratto per cinque notti in un hotel, suonando il pianoforte nella sua band (che di solito non includeva un pianoforte). Le prime quattro notti non ha nemmeno toccato lo strumento. L’unico che si accorse del silenzio fu il trombonista Lawrence Brown, che prima dell’inizio della quinta esibizione gli sorrise e disse: Ehi, Cecil, non so se te ne sei accorto, ma quel pianoforte ha ottantotto tasti. Che ne dici di colpirne uno?

La storia è venuta fuori una sera tardi, a un tavolo del Five Spot, e sebbene non fosse esattamente una prova delle sue credenziali, e doveva essere spiegata, il risultato è stato un’offerta di suonare lì una sera durante la settimana, come supporto per un gruppo d’avanguardia. Era un’opportunità mandata dal cielo, e come tale l’ha trattata. Smise di lavorare in tintoria, comprò un pianoforte con un prestito provvidenziale, e si allenò quasi senza sosta, interrompendosi solo per rispondere alle lamentele dei vicini con educate spiegazioni. Si era trasferito dall’appartamento fatiscente del Lower East Side a una stanza angusta in Bleeker Street.

La crema del jazz mondiale è passata dal Five Spot, quindi avrebbe avuto un pubblico di intenditori. Si convinse che il sussulto provocato dal suo modo di suonare poteva trasformare quel pubblico e produrre l’applauso che fino a quel momento gli era stato negato. La teoria delle unità cumulative che il suo ex compagno di classe aveva proposto era proprio questa: una teoria, un’astrazione, niente di più. In realtà, c’era qualcosa di magico in un pubblico, come un genio che appare da una lampada.

La notte in questione arrivò; salì sul palco, si sedette al pianoforte e cominciò. L’amplificatore è morto quasi subito, presumibilmente un guasto tecnico. Non gli importava. Ma la sua esibizione è stata interrotta da un applauso condiscendente. Quando alzò lo sguardo, sconcertato, vide i musicisti d’avanguardia avanzare con i loro strumenti ei loro sorrisi scimmieschi. Andò a sedersi a un tavolo dove c’erano delle persone che conosceva; stavano parlando d’altro. Uno lo prese per un gomito e, chinandosi verso di lui, scosse lentamente la testa. Ridendo allegramente, un altro è uscito con un’osservazione apparentemente appropriata: “Va tutto bene, ora è finita”. E questo era tutto; hanno smesso di parlare per ascoltare il numero successivo.

Qualcuno si avvicinò a lui e gli disse: “Sono un povero autodidatta nero, ma ho il diritto di esprimere la mia opinione, e secondo me quello che fai non è musica”. Cecil si limitò ad annuire e scrollò le spalle, come per dire: Cosa puoi fare? Ma l’autodidatta autoproclamato non si accontentava di lasciarlo lì. “Non vuoi conoscere le ragioni della mia opinione? Sei così vanitoso, pensi davvero che essere un artista ti renda così superiore che non ti interessa cosa pensa un altro essere umano?” “Mi dispiace, non ho chiesto perché non avevo capito che c’erano dei motivi, ma se ci sono, sarei interessato a sentirli”. Un sorriso soddisfatto dell’autodidatta, come se avesse segnato un punto. Ha spiegato: “È molto semplice: la musica è un insieme composto da parti che sono anche musicali. Se la parte non è musicale, non lo è nemmeno l’intero.”

L’argomento non sembrava inconfutabile, ma non era né il momento né il luogo per affrontarlo. E c’era anche un problema più generale. Cecil continuò a pensare a questa esperienza nei giorni seguenti, mentre si occupava distrattamente dei suoi affari; rivisse passo dopo passo l’accaduto e cercò di trovare una spiegazione. Pensò che forse la spiegazione gli sarebbe venuta in mente una volta che avesse dimenticato cosa era successo, ma nel frattempo non poteva fare a meno di ricordare. Ha ricostruito mentalmente la serata, i movimenti delle sue dita sulla tastiera, le parole e le reazioni degli altri… e la ricostruzione è stata accompagnata da un leggero senso di incredulità, la sensazione inevitabilmente provocata da quanto, di fatto, è accaduto.

Come un bambino cattivo colto sul fatto, ha confessato che sperava in una risposta dai musicisti. Il modo in cui suonava poteva suonare strano. Percussioni pianistiche iperarmoniche, intenzioni spaziali tradotte nel tempo, scultura sonora… (ci sono sempre tante formule per spiegare un fenomeno straordinario), e qualcuno che non lavorava nel campo poteva benissimo rimanere sconcertato. Ma i musicisti professionisti che andavano al Five Spot per tenersi aggiornati conoscevano Schönberg e Varèse, e usavano loro stessi delle formule, tutto il tempo! L’unica spiegazione che seppe tirarsi fuori, prendendo a prestito un argomento dal pazzo autodidatta che lo aveva avvicinato (forse non era poi così pazzo), era che “i musicisti fanno parte della musica”: perché non potevano uscirne fuori , non potevano offrire alcun riconoscimento esplicito.

In realtà, non era così sicuro che qualcuno dei musicisti che pensava di aver notato fosse stato davvero lì perché era molto miope e portava occhiali scuri, il che, combinato con l’illuminazione soffusa, rendeva quasi impossibile vedere . Si ripromise, come faceva di solito, di tornare più tardi e valutare la situazione in modo più obiettivo. Di solito non riusciva a mantenere quelle promesse e questa volta, preoccupato da altre cose, lasciò passare diverse settimane. Ha iniziato un lavoro come guardiano notturno in un supermercato e poi come addetto alle pulizie in una banca, ed entrambi i cambiamenti lo hanno costretto a riorganizzare la sua routine e le sue abitudini. Alla fine tornò al Five Spot, per ascoltare un cantante che ammirava appassionatamente, e fu sorpreso di trovare un’offerta di lavoro che lo aspettava.

Si è scoperto che una ricca signora che viveva sulla Fifth Avenue assumeva pianisti per le sue cene bohémien e li reclutava dal Five Spot, come una sorta di garanzia di qualità. Non ha mai scoperto se l’hanno fatto apposta, a lui o a lei. In ogni caso pagava cento dollari, in anticipo. Cecil ha preparato alcune improvvisazioni liriche (ha registrato le sue idee in un piccolo taccuino, utilizzando un personale sistema di punti). Camminò nel parco finché il sole non tramontò, in uno stato d’animo in bilico tra “Cosa me ne frega?” e un ottimismo distaccato. Gli scoiattoli correvano tra gli alberi, come se la legge di gravità non fosse ancora entrata in vigore. Il cielo diventò improvvisamente di un turchese intenso, la brezza si spense e ci fu un silenzio in cui si sentiva un aereo sorvolare la città. Attraversò la strada e disse al portiere chi era.

Entrò nell’attico attraverso gli alloggi della servitù, dove trascorse la maggior parte dell’ora bevendo caffè con il personale. Alla fine, un cameriere vestito di nero venne a dirgli che era ora, poi lo condusse attraverso il salone fino al pianoforte, un grande pianoforte a coda, già aperto. Diede appena un’occhiata agli ospiti, che bevevano e chiacchieravano, lontani anni luce da qualsiasi musica immaginabile. Abbassò lo sguardo sulla tastiera e scrutò le corde, brillanti come l’oro. Era un pianoforte di prima classe e sembrava nuovo di zecca.

Suonava una nota con la mano sinistra, un si bemolle profondo, che risuonava di lente convulsioni sottomarine… E questo era tutto, perché la padrona di casa era in piedi accanto a lui, chiudendo il coperchio sui tasti con un movimento così dolce ed efficace che sembrava che fosse stato provato.

“Per oggi faremo a meno della tua compagnia”, disse, guardandosi intorno. Ci sono stati applausi e risate, ma solo dagli ospiti che si trovavano nelle vicinanze. La stanza era molto grande.

Cecil era ancora perplesso ore dopo, parlando con il suo amante. Come potrebbe una singola nota avere un tale effetto? Ma era stata solo una nota? Onestamente non riusciva a ricordare. Avrebbe potuto giurare che fosse stato proprio quello, ma forse nel sogno di quella nota, aveva suonato uno o più dei suoi famosi ” tone cluster”, o si era lanciato in alcune scale, o aveva messo le mani nelle viscere del pianoforte .

Non importava cosa fosse successo esattamente, avrebbe dovuto aspettarsi una reazione del cosi’, da snob del genere senza alcuna conoscenza della musica. Ma poteva anche aspettarsi il contrario, perché la sua musica, incapace di sfondare il loro guscio di ignoranza, avrebbe potuto stendersi sulla superficie come vaselina e facilitare una penetrazione superficiale.

Il tempo è passato, ma non ha portato cambiamenti. Quell’inverno ci furono una serie di notevoli opportunità. Un bar con una cattiva reputazione lo ha assunto per una settimana per fornire un po’ di varietà a tarda notte (doveva iniziare alle 2 del mattino). La cattiva reputazione era dovuta agli’affari che avvenivano nella stanza sul retro. Il proprietario, che era anche il titolare del bar, era irlandese; è andato personalmente da Cecil e gli ha spiegato cosa voleva: musica vera e innovativa, non solo carta da parati. Cecil ha chiesto se aveva sentito parlare del suo modo di suonare. Non osava chiedere se l’avesse davvero sentito suonare. L’irlandese annuì senza parlare e gli offrì venti dollari a notte.

Il posto era squallido. La clientela era composta da tossicodipendenti di colore, e da un numero consistente di vecchiette dall’aria rassegnata, in attesa negli angoli. Due pianoforti colmi di ragnatele stavano di guardia in fondo alla stanza. Nessuno prestava attenzione al trio di banjo e ai suoi accordi disordinati. Paradossalmente, c’era una buona atmosfera, una certa eccitazione nell’aria, quasi come una musica precedente.

Si sedette a uno dei pianoforti… Non era sicuro di quale, non era lì abbastanza a lungo per esserne sicuro, perché aveva suonato solo un paio di accordi o raffiche di note quando il proprietario del bar lo aveva toccato sulla spalla e, con uno sguardo preoccupato sul volto, gli disse di smettere. Cecil tolse le mani dai tasti e la pressione verso il basso sulla sua spalla divenne una presa verso l’alto che lo sollevò in piedi. Una delle vecchie signore nere era apparsa dall’altra parte del pianoforte e, come se stesse aspettando un segno, era scivolata al suo posto sullo sgabello e aveva iniziato a suonare “Body and Soul”.

L’irlandese gli mostrò la via d’uscita, ancora preoccupato. Il pianista senza parole si chiedeva cosa potesse esserci nella sua musica per preoccupare un uomo che si occupava ogni giorno di pericolosi fornitori e acquirenti di droghe pesanti. Il barista gli porse una banconota da dieci dollari ma, proprio mentre Cecil stava per prenderla, allontanò la mano.

“Non stavi facendo una specie di scherzo, vero?”

C’era un bagliore minaccioso nei suoi occhi strabici. Cecil si chiese se ci fossero stati davvero due pianoforti. Quel personaggio aveva affrontato il pericolo così a lungo, lo aveva assorbito ed era diventato un pericolo in persona. Pesava 200 libbre, più del doppio del pianista, che non ha aspettato ulteriori denigrazioni.

Cecil era una specie di folletto, sempre elegante nonostante i suoi mezzi limitati, indossava velluto e pelle bianca e scarpe a punta che completavano il suo fisico compatto e muscoloso. Non si esercitava, ma il modo in cui suonava il piano impegnava ogni molecola mobile del suo corpo. La sudorazione era diventata una seconda natura per lui. Poteva perdere fino a dieci libbre in un pomeriggio di improvvisazione sul suo vecchio pianoforte. Straordinariamente distratto, capriccioso e volubile, quando si sedeva e incrociava le gambe (con i pantaloni larghi, la camicia immacolata e il panciotto di maglia) era ornamentale come un soprammobile di fine fattura. I suoi continui cambi di indirizzo lo proteggevano; erano la dimora sospesa del piccolo genio, e lì dormiva su un letto di crisantemi, all’ombra di una ragnatela carica di goccioline.

Quella notte camminò a lungo per le strade della città, pensando. C’era qualcosa di strano: l’atteggiamento del voluminoso spacciatore irlandese di eroina non era sostanzialmente diverso da quello della signora che abitava sulla Fifth Avenue, tranne per il fatto che non sembrava preoccupata, anche se forse lo nascondeva. Eppure i due individui non erano affatto simili. Tranne in quell’unico aspetto. Possibile che la propensione a interromperlo fosse il denominatore comune della razza umana? E ha scoperto qualcosa in più nelle ultime parole dell’irlandese, qualcosa che ha cominciato a ricostruire dai ricordi di tutte le sue sfortunate esibizioni. La gente gli chiedeva sempre se lo faceva per scherzo. Certa gente, certo, la ricca per esempio, non si degnava di chiedere, ma il loro comportamento presupponeva la domanda. E si chiese perché la domanda si applicasse a lui, ma non agli altri. Ad esempio, non avrebbe mai chiesto alla signora, o all’irlandese, se hanno fatto quello che hanno fatto (qualunque cosa fosse) sul serio o per scherzo. C’era qualcosa di intrinseco nel suo lavoro che sollevava la questione.

Un’altra ricca signora, la signora Vanderbilt, figura in un famoso aneddoto, citato praticamente in tutti i libri di psicologia scritti in quel periodo. Una volta ha deciso di ravvivare una cena con della musica per violino. Ha chiesto chi fosse il miglior violinista del mondo. Perché dovrebbe accontentarsi del secondo ? Fritz Kreisler, le è stato detto. Lo chiamò al telefono. Non offro concerti privati, ha detto: il mio compenso è troppo alto. Non è un problema, rispose la signora Vanderbilt: Quanto? Diecimila dollari. Tutto bene. Ti aspetto stasera. Ma c’è solo una cosa, signor Kreisler: cenerete in cucina con la servitù e non dovete mescolarvi ai miei ospiti. In tal caso, disse Kreisler, dovrò modificare la mia parcella. Non è un problema, quanto? Duemila dollari, rispose il violinista.

Molti scrittori amavano quella storia e avrebbero continuato ad amarla per tutta la vita, raccontandola instancabilmente l’un l’altro e trascrivendola nei loro libri e articoli. Ma che dire del  suo aneddoto, quello su Cecil Taylor? Qualcuno lo adorerebbe? Qualcuno lo racconterebbe? Anche gli aneddoti dovevano uscire – no? – perché qualcuno li ripetesse.

Quell’estate, insieme a un’orda di altri musicisti, fu invitato a partecipare al festival di Newport, durante il quale un paio di pomeriggi sarebbero stati dedicati alla presentazione di nuovi artisti. Cecil ci pensò: la sua musica, che era essenzialmente nuova, si sarebbe confrontata in quell’atmosfera festosa, marinara. Tuttavia, era un notevole cambiamento rispetto al fumo e alle chiacchiere dei bar: si sarebbe esibito per i fan del jazz, che avevano pagato i biglietti e venivano ad ascoltare e giudicare. Eppure, nonostante si fosse preparato all’evento con la consueta dedizione, quando venne il giorno, la sua esibizione fu un fiasco assoluto. 

Nessuno lo ha interrotto questa volta, ma l’ascolto è stato interrotto: il pubblico è uscito, il che non ha impedito ai critici e ai giornalisti di avere un’opinione. Nemmeno un’opinione su di lui; l’hanno usato come pretesto per regolare i conti con gli organizzatori, che erano così privi di giudizio da invitare persone che non suonavano nemmeno jazz, né alcun genere di musica. La cosa più vicina alla critica è venuta dal giornalista di Down Beat  . Senza menzionare Cecil per nome, e adottando un tono ironico, ha tirato fuori una versione del paradosso del bugiardo cretese: Se qualcuno martellasse un pianoforte con i pugni e dicesse: “Sto facendo musica…” La musica, pensava Cecil mentre leggeva , non può essere paradossale, per la sua natura non linguistica, eppure quello che mi sta succedendo è un paradosso. Come può essere?

Non riuscì a trovare una risposta, né allora né mai. Nei mesi successivi si esibì in una mezza dozzina di bar, sempre posti diversi ma il risultato era sempre lo stesso, e ricevette due inviti, che riaprirono la ferita dell’attesa, uno da un’università e l’altro dagli organizzatori di una serie di eventi d’avanguardia alla Cooper Union. Prese il primo con una certa speranza, che si rivelò fuori luogo (in pochi minuti la stanza era vuota; il professore che aveva dato l’invito aveva inventato scuse complicate e lo odiò per sempre), ma almeno servì per provocare una riflessione, che poteva anche essere fuori luogo, non che a Cecil importasse più: un pubblico colto equivaleva in tutto e per tutto a uno incolto. Erano uguali, infatti, tranne che guardavano in direzioni opposte, l’uno dall’altro. Il perno su cui ruotavano i loro sedili ideologici era il vecchio racconto dei vestiti nuovi dell’imperatore. Per un gruppo la cosa oscena e vergognosa era la nudità; per l’altro, erano i vestiti.

La sua esperienza alla Cooper Union è stata ancora meno gratificante. Hanno usato un blackout come pretesto per fermarlo a metà; ci furono vigorosi fischi e, da quello che udì in seguito, la sua esibizione lasciò il pubblico a chiedersi quali fossero i limiti della musica e se lo avesse inteso come uno scherzo.

Cecil lasciò un altro dei suoi lavori temporanei e, con un po’ di soldi che aveva risparmiato, trascorse i mesi invernali studiando e componendo. In primavera è arrivato un contratto per un paio di appuntamenti, in un bar di Brooklyn, dove gli hanno riso in faccia e lo hanno buttato fuori. Mentre tornava a casa in treno, il movimento a dondolo e le stazioni che scorrevano lo mettevano in uno stato d’animo meditativo. Lo colpì il fatto che la logica della sua situazione fosse in effetti perfettamente chiara, e si chiese perché non l’avesse vista prima: in tutti quei racconti edificanti su pianoforti e violini, c’era sempre un musicista il cui talento all’inizio non era riconosciuto , ma alla fine lo era. Lì stava l’errore, nel passaggio dal fallimento al trionfo, come se fossero due punti, A e B, uniti da una linea. Infatti il ​​fallimento è infinito, perché è infinitamente divisibile, a differenza del successo.

Supponiamo, disse Cecil nella carrozza vuota alle tre del mattino, che per essere riconosciuto devo esibirmi per un pubblico il cui coefficiente di sensibilità e intelligenza ha un certo valore di soglia, x. E diciamo che inizio a esibirmi per un pubblico con coefficiente x/100, poi dovrò “passare attraverso” un pubblico il cui coefficiente è x/50, poi uno con coefficiente x/25… e così via . Non c’era bisogno di reinventare il famoso paradosso di Zenone: era fin troppo ovvio.

Sei mesi dopo viene ingaggiato per suonare in un locale frequentato da turisti francesi: esistenzialisti, giunti nella città del jazz in cerca di forti emozioni. Arrivò a mezzanotte, come d’accordo, e lo portarono subito al pianoforte. Seduto sullo sgabello, allungò le mani verso i tasti e si lanciò in una serie di accordi… Ci furono un paio di scoppi di risate senza enfasi. Con uno sguardo allegro sul viso, il maestro di cerimonie lo stava salutando con la mano fuori dal palco. Avevano già deciso che era uno scherzo? No, in realtà erano piuttosto indignati. Per allentare la tensione, un pianista più anziano prese subito il suo posto. Nessuno ha detto una parola a Cecil; tuttavia, sperava che gli avrebbero versato una parte della somma promessa (come facevano sempre) e rimase lì a guardare e ad ascoltare il pianista. Poteva sentire l’influenza di Ellington e Bud Powell… Il ragazzo non era male. Un musicista convenzionale, pensò, ha sempre a che fare con la musica nella sua forma più generale, come se lasciasse il particolare per dopo, aspettando il momento giusto. E lo pagarono: venti dollari, a condizione che non si facesse più vedere lì.

César Aira ha pubblicato più di ottanta libri. 

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