CARTOLINE – Irreversible Entanglements a NovaraJazz

Ieratica. Ipnotica. Feroce, perturbante. Così ti arriva in pancia Camae Ayewa, aka Moor Mother, la prima volta che la senti e la vedi dal vivo, a NovaraJazz con gli Irreversible Entanglements di cui è leader. Entra sulla scena dopo che il concerto si è aperto con una energica intro free del sax tenore di Keir Neuringer e della batteria di Lukas König (che sostituisce qui Tcheser Holmes); entra assieme agli altri membri del gruppo – il trombettista newyorchese di origini panamensi Aquiles Navarro e il contrabbassista Luke Stewart, attivo anche in “Heroes are Gang Leaders” e fondatore della nonprofit jazz “CapitalBop” a Washington D.C. –, entra e subito ti sferza con la sua voce scura e decisa, senza mai cedere alla tentazione di imporsi sul gruppo, senza mai allentare la presa.

Ma non è solo lei, è  tutto il collettivo ad arrivarti come un pugno nello stomaco, come uno schiaffo in faccia, sono gli intrecci irreversibili che non puoi ignorare, e che si fanno tutt’uno, in un impasto denso e accellerato, con il recitato di Camae. Discriminazione, razzismo, violenza verso la comunità afroamericana – “ne abbiamo persi così tanti… sei pronto? Non ce la faremo mai finché non urleremo basta!” – : i temi che impegnano la band fin dalla sua costituzione, sulla scia di un evento contro la police brutality a Brooklyn nel 2015, attraversano anche questo concerto come un filo rosso, dall’inizio alla fine.

Chi non c’era domenica 6 febbraio allo spazio Nòva – ex caserma riconvertita a centro culturale, uno dei nuovi luoghi di NovaraJazz che in prospettiva futura, come auspicano i direttori artistici Corrado Beldì e Riccardo Cigolotti, potrà accogliere anche residenze artistiche e produzioni originali – non deve però pensare a una performance in monocromo, interamente giocata sulla denuncia arrabbiatissima, espulsa dal corpo con tutta la veemenza e la cattiveria di cui le donne sono capaci: perché sono tante le sfumature, i paesaggi sonori, i mood che gli Irreversible Entanglements mettono in campo seguendo quel filo rosso, dalle allusioni afro e latin (tanto alla batteria del viennese König, peraltro ospite non nuovo in questa formazione, quanto alle congas e al campanaccio di Keir Neuringer), all’arco che Luke Stewart sfrega ossessivo sulle corde del suo contrabbasso; dai momenti di sospensione e di respiro tra un crescendo e l’altro agli ostinati di tromba e sax; dai live electronics di Neuringer e Moor Mother al ballabile energizzante e iperveloce che irrompe più volte nella narrazione. Tra tradizione black –  come non pensare allo spiritual jazz degli anni ’70, o allo spoken word di Gil Scott-Heron e Amiri Baraka? – e avanguardia, in una tensione costante, di quelle che ti tengono incollata alla sedia, anche se non puoi fare a meno di muovere il corpo e di tirare le labbra in una smorfia per tutto il ritmo che permea il concerto, dichiarato o sottinteso, e per le incrinature sonore che la band non risparmia.

E poi, alla fine, ancora Moor Mother, ancora la poetessa Camae, che rimane quasi sempre di lato – mai al centro, solo verso la conclusione del concerto si rivolge al pubblico nel corpo e nella voce –, con la testa abbassata e la schiena incurvata la senti entrare nell’orrore del passato, prossimo e remoto, e nel suo profilo scuro (pensiero scomodo) ti evoca le silhouette di Kara Walker. Fragile, esposta. Per un istante, prima di ritrovare nelle mani la ritualità di gesti antichi, sacerdotessa urbana e afrofuturismo. Enough, no more… this is a love technology… I hope you receive this message. Transmission!

Le foto sono di Emanuele Meschini

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