‘Piccolo borghese del bello’ (?!?) sull’unico quotidiano nazionale che si occupa regolarmente di jazz. ‘Piano bar in paradiso’, su queste colonne. Ora si sa che quando si ha poco spazio e tempo a disposizione la boutade è una grande tentazione. Si rischia di rimanerne prigionieri, però.
Ma cosa è veramente successo al Teatro Donizetti la sera di sabato 19 marzo? Un pubblico foltissimo (oltre 1.000 persone, a quanto sembra) ha seguito in maniera attenta e concentrata un’impegnativo set di oltre 90 minuti di piano solo, decretando alla fine un autentico ‘trionfo’, a detta della stessa mano de ‘il piccolo borghese del Bello’. No, non erano di scena né Allevi, né Einaudi, né Bollani: perché è bene ricordarlo, sono questi che in Italia ottengono una simile risposta di pubblico, ma con musiche sulla cui programmatica linearità e compiacenza verso il pubblico non v’è il minimo dubbio.
Dietro lo Steinway c’era invece Brad Mehldau, un jazzman ‘senza se e senza ma’, con alle spalle una carriera di cui tutto si può dire, tranne che non sia mai venuta meno ad una sua intima coerenza. Una ‘star’? Direi piuttosto un musicista che ha finalmente colto un successo ed un riconoscimento, ma circoscritto al circuito jazzistico, e direi pure di quello più hardcore e meno ‘trendy’. E’ forse da divi richiedere uno spazio di piano solo in un Festival che mirava deliberatamente ad offrire al pubblico un’istantanea di questo cruciale strumento e che già comprendeva altri due fuoriclasse dello stesso, uno in trio puro, ed un altro con la medesima formazione in dialogo con un trombettista/flicornista? Per me è solo un modo di usare del proprio appeal per garantirsi le migliori condizioni per esprimersi ed arrivare al pubblico con una formula diversa. Il ‘divismo’ è ben altra cosa, ma sul punto torneremo più avanti.
Il Leader, il Compositore ed il Solista. Ci sono diversi Mehldau: quello ben noto del trio con Grenadier e Ballard che ormai è un’autentico classico moderno in una affollata discendenza, quello che con esiti altalenanti si cimenta con composizioni strutturate per organici ampii e spesso alquanto originali, ed infine il solista, che non solo è il meno documentato discograficamente, ma anche quello di meno frequente ascolto dal vivo.
I materiali ed il bulino.Il solista ha una sua voce distinta, non solo, ma ormai fa affidamento su di un repertorio consolidato nel tempo: i Radiohead, i Beatles, Neil Young, Cole Porter ed i brasiliani non sono certo una novità della serata bergamasca. Pur trattandosi di musiche che certamente hanno una precisa risonanza nel mondo interiore di Brad, a Bergamo si sono rivelate essenzialmente come dei materiali su cui il bulino dello stile del nostro ha lavorato di cesello. La fluidità con cui si trascorreva attraverso brani così eterogenei senza apparente soluzione di continuità nell’atmosfera testimoniava l’assoluta prevalenza sugli stessi di una voce e di una visione quanto mai personale.

Miniature in seppia. E si tratta di uno stile quantomai trattenuto, basato sulla sottrazione, su colori tenui, ma ricchi di sfumature e rifrazioni. Il Mehldau strumentista di risorse e padronanza assoluti fa un passo indietro rispetto al Mehldau musicista, che invece di sfruttare in modo spettacolare e narcisistico la varietà di spunti degli eterogenei materiali, ce ne offre una sorta di immagine distante e filtrata, un poco come le foto virate in seppia di un vecchio album di ricordi.
Elegia. Eh sì, perché la cifra dominante del set è stata quella dell’elegia, il registro del rimpianto: e caro Rob53, l’elegia in Paradiso è una contraddizione in termini, il Paradiso o è perfetto ed autosufficiente, o non è. E’ un poco come se Melhdau avesse voluto dire al pubblico: ‘vedete, questa è stata la nostra musica, mia e vostra, portatrice di un’ideale di bellezza di un mondo al crepuscolo, se non già ormai irrimediabilmente tramontato’. Non direi che si tratti della posa compiacente e seduttiva del piano bar (con la quale peraltro alle nostre latitudini abbiamo grande familiarità, con grandi esiti di botteghino tra l’altro, forse dovremmo far più caso a questa trave nel nostro occhio…).
Nuovi standards vs. ‘originals’. Difendo senza esitazioni anche la scelta di appoggiarsi a materiali di altri: veniamo da anni ed anni di predominio totale degli ‘originals’, tagliati su misura della personalità e soprattutto delle risorse dei creatori, spesso con esiti non epocali e comunque con appeal ridottissimo tra i colleghi. Scrivere per il jazz è quantomai difficile, e soprattutto implica un’intensità di espressione ed un’essenzialità che sono merce rara. Non a caso per ritrovare le ultime aggiunte al Real Book (meglio noto come ‘Fake Book’ 😉 ), la Bibbia degli standards jazzistici, bisogna risalire indietro di decenni, a Mingus, a Coltrane, ed anche ad Ornette. Invece da tempo Mehldau applica la sua finezza di elaborazione a materiali volutamente semplici, quasi elementari, a poco a poco trasformandoli in un corpus di ‘nuovi standards moderni’, come ha acutamente osservato un fine recensore di concerti. Uno sforzo in qualche modo analogo a quello che abbiamo già visto all’opera nella musica di Iyer. Ma alla torrenzialità di quest’ultimo Brad oppone una sobrietà ed un’economia che mira alla quintessenza, ad un ideale di bellezza meditativa e dolente.

Main street e vie laterali. Certo, il Mehldau solista ha scelto di percorrere la main street, con il suo profilo dimesso e quotidiano, anziché lanciarsi su rettifili che fendono il deserto all’inseguimento dell’orizzonte come abbiamo visto fare ad Iyer. Ma come i suoi omologhi fisici del Midwest o del Texas, anche la Main Street di Mehldau incrocia vie laterali che sboccano su orizzonti lontani di deserti e praterie. Basta avere la pazienza e la calma di guardarsi intorno, ed anche nei momenti più lirici e sfumati del nostro si coglieranno sottili bagliori ed improvvise aperture che portano lontano: ma sono affidati alle sfumature ed ai dettagli con cui vengono arricchiti e riplasmati materiali spesso banali, ma di grande potenziale comunicativo verso l’ascoltatore. A questo riguardo, l’understatement di Mehldau mi ha richiamato un poco l’affettuoso ed ironico crepuscolarismo di Guido Gozzano, tra l’altro un ottimo antidoto alla sbornia di dannunzianesimo jarrettiano che abbiamo alle spalle. Forse dipende da questo lo scambiare sobrietà ed asciuttezza con ‘aridità’. E quanto all’asserita latitanza del jazzman nella serata del Donizetti, diciamocelo francamente: per avere il ‘blues tinge’ di Mehldau sul più ovvio dei brani di Radiohead o Bowie bisogna metter insieme almeno una diecina di nostri pianisti (con solo due-tre lodevoli, quanto isolate eccezioni).
E così il match delle boutades si chiude con un 2-2, un bel pari. Si ringrazia l’Impolitico per la cortese collaborazione 😉 . Milton56
Poche settimane fa, Mehldau alle prese con un Neil Young sentito anche a Bergamo. Clip amatoriale, ma si avvicina abbastanza alla temperatura della serata del Donizetti