Ancora una volta gioco di rimessa sulle considerazioni dell’amico Rob53, traendo spunto anche dall’interessante commento del lettore Tarantino.
Come in altri casi, ragiono ‘a botta calda’, e non temo affatto di ripetermi o di ritornare su argomenti che sembrano ritriti ed usurati, mentre in realtà non lo sono. ‘Repetita iuvant’, come dimostrano tante carriere pubbliche costruite su questo principio nel recente passato. Anche perché a dire certe cose siamo rimasti in pochi.
Nessun serio appassionato di jazz può ormai avere qualche aspettativa rispetto all’edizione estiva di Umbria Jazz (quella invernale è altro discorso). Ormai un certo trend si è stabilito da anni ed è assurdo pensare ad una sua inversione. Soprattutto in una stagione in cui bisogna dimostrare a sé stessi ed ai propri referenti organizzativi ed istituzionali che si è chiusa la parentesi della pandemia e che ora si è capaci di riempire le platee come e più di prima (cosa che viene pure prima della tenuta dei conti).
Primo. Quando si ha dietro una macchina organizzativa che mobilita svariate centinaia di persone e che è diventata una vera e propria industria, è inutile discettare di scelte artistiche: con costi fissi di questa entità è l’apparato organizzativo che di fatto decide dei contenuti. Prima lezione da mandare a memoria per chi ancora si ostina a cercare un punto di equilibrio tra qualità e risposta di pubblico: il gigantismo organizzativo è nemico di qualsiasi scelta ragionata in materia di proposte. ‘Piccolo’ non solo potrebbe esser bello, ma soprattutto è l’unica dimensione gestibile senza soggiacere ad incoercibili costrizioni di botteghino.
Secondo. Inutile ignorare che il clima culturale di questo paese è cambiato radicalmente rispetto ai tempi in cui si potevano riempire le arene estive con Mingus, Mulligan, Gil Evans etc. Qualcuno dirà: “purtroppo il pubblico giovanile non ha avuto modo di affinare i suoi gusti, gli sono mancati ascolti guidati e formativi etc etc.” Spiacente, ma dissento totalmente. Come ha acutamente notato il lettore Tarantino, un festival che stacca biglietti al costo medio di 50 euro a serata non si pone nemmeno l’obiettivo di coinvolgere i giovani, che sono ben lontani da questa capacità di spesa (tra l’altro per una serata in un’arena in balia degli elementi). Si rivolge ad un pubblico alquanto ‘ageè’, ben dotato finanziariamente, nettamente regredito ed impigrito nei suoi gusti, e ciò dopo aver attraversato decenni di occasioni di ascolto ben più stimolanti e consistenti: oggi cerca invece solo occasioni di nostalgia, che gli vengono confezionate su misura offrendo nel contempo un sostanzioso sostegno al reddito di star non a caso incamminate da tempo sul Viale del Tramonto. Come ho già detto in altre occasioni, sotto questo profilo anche un certo pubblico ha le sue responsabilità: in primis, quella di voler mascherare una propensione all’evasione pura e semplice sotto una patina di ‘impegno culturale’.
Terzo. E sin qui niente di male se tutto si riducesse ad una transazione tra pubblico danaroso e nostalgico e le casse di un festival con costi quantomai elevati. Ovviamente occorre metter anche tra parentesi l’abuso del richiamo ad una musica che ha sulle spalle un secolo di storia, e che nonostante ciò si vede ancora più o meno sottilmente negato il suo riconoscimento come espressione artistica e di cultura: tanto per dirne una, è solo di poche settimane fa l’eliminazione del bando che a New Orleans (sì, proprio la culla del jazz) impediva non solo l’insegnamento, ma persino l’ascolto della musica afroamericana nelle scuole. Quanto alle nostre latitudini, l’ostracismo più o meno dissimulato verso il jazz fa parte del DNA dell’establishment culturale italiano dell’ultimo secolo, e quello successivo al ben noto Ventennio è stato solo ben più sottile ed efficace. Il punto è che questa possente kermesse nostalgica a beneficio di un pubblico più che agiato è sostenuta da un ingente finanziamento pubblico: largocirca della stessa entità di quello concesso al Festival dei Due Mondi di Spoleto, il quale peraltro si guarda bene dal rivolgersi ai palchi dei talent shows per la selezione delle sue proposte. E vorrei proprio godermi la generale levata di scudi che seguirebbe ad un tentativo di imporgliele in base alle ineludibili ‘leggi di mercato’. Perché il Festival spoletino lo si vuole fuori dal mercato (giustamente, ricordiamo che nei suoi anni d’oro la New York che ‘faceva opinione’ si trasferiva armi e bagagli in Umbria per seguirlo) ed il finanziamento pubblico serve giusto a questo, ad assicurarne la fattibilità e l’indipendenza. L’Umbria Jazz di oggi invece sarebbe del tutto realizzabile ed autosufficiente sia lato pubblico (benestante) che su quello dei costi (particolarmente per i corposi cachet di artisti dal passato glamour, ma che oggi hanno qualche preoccupazione nel mantenere ville a Bel Air o nel nostro Chiantishire). E la criticità non sta tanto sul lato di chi il finanziamento lo percepisce, quanto dal lato di chi lo decide sovvenzionando la nostalgia dei benestanti (che ben si dovrebbe sostenere da sola e con i propri mezzi), e censurando oggettivamente altre iniziative di ben altra consistenza e che in assenza di un sostanziale sostegno pubblico non sono puramente e semplicemente fattibili per la difficoltà di far incrociare risorse economiche limitate del pubblico interessato ed un’equa remunerazione di musicisti ben più stritolati dagli attuali monopoli tecnologici che dominano il mercato musicale, colossi con i quali anche divi all’ultimo miglio della loro carriera riescono ancora a strappare accordi vantaggiosi di cessione in blocco dei propri cataloghi. Infine, bisognerebbe sempre ricordare che occuparsi degli Eventi le cui luminarie si smontano il giorno successivo è mestiere dei dicasteri del Turismo, mentre in quelli della Cultura ci si dovrebbe occupare di qualcosa che ambisce a lasciare un segno anche ‘a festa finita’. Diversamente, bastano ed avanzano le Pro Loco. Passo e chiudo . Milton56
Ed a proposito di ‘piccoli’ e ‘giovani’, eccone alcuni che cresceranno di sicuro (e lo stanno facendo già, ma fuori dai confini patrii): i Dolphians di Federico Calcagno, che si cimentano con ‘Gazzelloni’, il brano dedicato da Eric Dolphy al grande flautista nel suo epocale ‘Out to Lunch’. Dal vivo nell’estate 2021, in un festival jazz ‘senza virgolette’……
Ottime le proposte musicali, il jazz forse è vero che non morirà mai, nonostante questo mondo diventato così avido e poco incline alla diffusione di musica di qualità..
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Grazie, vi assicuro che le scelte delle clips musicali e delle fotografie non sono mai casuali e prendono almeno altrettanto tempo della stesura dell’articolo, di cui devono esser ritenute parte integrante. Anzi qualche volta spero che qualcuno le apra in sottofondo alla lettura…. Milton56
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Oh sì, ci credo che c’è un lungo lavoro nella scelta dei brani che non sono per niente casuali. Purtroppo i video non sempre , anzi poche volte, si possono ascoltare mentre si legge il testo, prendono tutto lo schermo quando li si aprono.
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