Cartoline. Roma, Roscoe Mitchell, l’Autunno del Patriarca

Sin da metà maggio impazza un’estate precoce: molti se ne lamentano, e per giusti motivi, ma per i jazzofili è manna: è la condizione ideale per il fiorire di festival e rassegne concertistiche. Quindi il vostro cronista abbandona l’ingrato, natio borgo selvaggio e si mette alla caccia di golose occasioni d’ascolto. Che non sono peraltro affatto mancate.

Il Parco di Villa Osio (sullo sfondo – foto Musacchio & Ianniello)

Da tempo smaniavo per metter finalmente piede a Villa Osio, fascinosa sede della romana Casa del Jazz: quale occasione migliore di farlo che collezionare in due giorni consecutivi una doppietta con il Saxophone Quartet di Anthony Braxton e di seguito il quintetto di Roscoe Mitchell? Come si può ben vedere, una partenza ‘con il botto’ per la lunga stagione estiva dell’istituzione romana, che si sviluppa dal  5 giugno al 7 agosto con una caleidoscopica varietà di proposte, tra le quali ne spiccano alcune quantomai stimolanti e golose: giusto per fare qualche nome, Franco D’Andrea alla testa di un’ensemble di musica contemporanea ibridato da presenze jazzistiche, ICP Orchestra con Han Bennink, l’ONJT di Damiani con Ambrose Akinmusire solista ospite, Makaya McCraven ed il suo gruppo, i Sons of Kemet all’ultimo giro di boa (ahimè si sciolgono alla fine di questo tour estivo), Nubya Garcia, John Patitucci Trio e, last but not least, la Lydian Sound Orchestra di Riccardo Brazzale in una produzione originale con l’affiatatissimo ospite David Murray. Ma c’è molto altro, anche per palati molto diversi, come potrete vedere qui. Una stagione veramente invidiabile, complimenti a Luciano Linzi.

L’attitudine turistica del vostro cronista non si manifesta solo nelle amabili peregrinazioni da una sede all’altra (sinora tutte di gran fascino, peraltro), ma anche nella scelta di ascolti ben poco frequentati in tempi normali. Ebbene sì, diciamocelo: Roscoe Mitchell è personaggio che incute una certa reverenziale soggezione. Siamo in presenza di un’autentico monumento vivente della musica afroamericana: dei suoi 82 anni, oltre 65 sono trascorsi in un’inarrestabile e tumultuoso viaggio che, prese le mosse dagli albori dell’AACM chicagoana si è poi sviluppato nell’avventura dell’Art Ensemble of Chicago, di cui si trova ad esser forse il principale erede vivente, anche se è aperta la discussione su quanto la sua musica di oggi possa ritenersi in piena continuità con lo spirito dell’indimenticabile band. Va anche detto che la sua musica degli ultimi anni certo non può definirsi molto empatica e conciliante verso un pubblico ampio: negli anni del c.d. ‘riflusso’ Roscoe sarebbe stato senz’altro definito un ‘non riconciliato’ puro e duro, con una punta di aristocratico ascetismo, pure.

L’ ormai mitico Art Ensemble of Chicago: a propositodi eredità e continuità, provate ad indovinare chi è Roscoe?

Date queste premesse, il concerto romano si è rivelato una sensibile, seppur parziale sorpresa, quantomeno per chi come me lo ha poco frequentato negli ultimi anni.

Innanzitutto è questione di equilibrio tra il leader ed il gruppo: Mitchell è una figura che gli yankee definirebbero ‘imposing’, uno che naturalmente fa un certo vuoto intorno a sé. A Roma invece, pur ritagliandosi ben definiti spazi solistici, evidenziati anche gestualmente con il levarsi dalla sedia da cui normalmente suonava (servitù dell’età avanzata) ed il presentarsi in primo piano alla ribalta, i sassofoni di Roscoe hanno finito per immergersi e quasi a momenti per nascondersi nel flusso sempre più intricato e tumultuoso generato dal gruppo. Quindi non si è quasi assistito all’altrimenti usuale messa in scena di oggetti sonori isolati, che condividevano con molte opere dell’arte astratta contemporanea un fascino ed un magnetismo quasi totemici: sembra esser alle spalle una certa ieratica assertività degli anni passati.

La sorpresa è stata tale che mi è venuto da pensare ad un passo falso dei tecnici del suono, con un piazzamento del microfono troppo in alto e distante rispetto alla postazione ‘da seduto’ di Mitchell. Invece a concerto finito il sempre disponibile Linzi mi ha spiegato che quella sistemazione era frutto di un minuzioso sound check protrattosi per ben due ore, e che quello era esattamente il bilanciamento del suono che Mitchell ricercava (con l’occasione, complimenti agli uomini della consolle, bel suono nitido e sempre dettagliato anche negli improvvisi ed imprevedibili pieni della band).

Altra cosa che mi ha colpito è stata una palpabile, maggiore discorsività e quasi narratività del solismo di Mitchell, che spesso conosce lunghi archi melodici (in cui non ha mancato di sfoggiare passaggi di respirazione circolare, bell’exploit per un ultraottantenne…) e nei momenti di insieme appare fortemente sostenuto e quasi sospinto dal drive di gruppo.

Ho l’impressione che, doppiato il capo dell’ottantIna, si stia affacciando una svolta sensibile nel suo modo di porsi e nella sua musica: mi sembra che Roscoe pensi molto più in termini di gruppo, quasi in un clima da passaggio del testimone tra sè ed i più giovani compagni, anche se alcuni di questi ultimi sono ormai veterani delle sue formazioni.

La band appare infatti dotata di una sua forte personalità e mostra notevole compattezza ed indipendenza dalla presenza attiva e dalla guida immediata del leader. Quest’ultimo ogni tanto si concede dei gesti di indirizzo, ma per la maggior parte del tempo il gruppo procede con un suo slancio autonomo, che nel prosieguo del concerto si è fatto sempre più impetuoso e ricco. Ha impressionato particolarmente il basso potente ed eloquente di Silvia Bolognesi, cui evidentemente il leader riconosce uno spazio molto rilevante e caratterizzato. Al punto che il solismo impetuoso ed a tratti travolgente della bassista rischia di schiacciare un poco il cugino violoncello di Tomeka Reid, che non a caso spesso si rifugia nei suoi registri più alti e in una serie di pizzicati puntillistici per trovare suoi spazi adeguati di espressione.

Altra figura che emerge con notevole rilievo è quella di Dudù Kouatè, ormai naturalizzato bergamasco, il che non gli ha impedito di entrare stabilmente nell’arca superstite dell’Art Ensemble odierno. A Roma non abbiamo visto in azione solo un fantasioso percussionista (che ha fatto ricorso anche al travaso di acqua tra due grosse ciotole per aggiungere colori alla sua già varia tavolozza), ma anche un delicato e concentrato flautista (allo strumento diritto in legno), che molto ha donato all’intricata trama sonora del gruppo.

Viceversa il veterano Tani Tabbal (che ha condiviso con Mitchell molte delle sue sessioni per ampio organico registrate da ECM) ha in gran parte rinunziato ad una scansione piena e continua della sua batteria, optando invece per un gioco di sottigliezze timbriche alternate a pause di rarefazione in grado di ‘drammatizzare’ le sue occasionali sortite in primo piano.

Insomma, in una bella sera di prima estate anche un riconosciuto Patriarca può spiazzarci e sorprenderci con un volto inedito e che talvolta ha lambito l’esoterico: la curiosità del Turista è stata così premiata. Milton56   

In mancanza di clip rappresentative del quintetto sentito a Roma (oltrechè di occasioni più recenti), concediamoci una scelta radicale: andiamo agli esordi di Mitchell, ‘Sound’ del 1966, non esattamente un album di facile reperibilità….

2 Comments

  1. Ringrazio sentitamente per i complimenti e per la vostra visita.
    Una precisazione: il concerto del 6 luglio è un double bill in cui,nella prima parte,si esibirà la nuova edizione dell’ONJGT diretta da Paolo Damiani:
    Camilla Battaglia – voce
    Anais Drago/Eloisa Manera – violino
    Francesco Fratini – tromba
    Federico Calcagno – clarinetto, clarinetto basso
    Michele Tino – sax alto
    Sophia Tomelleri – sax tenore
    Michele Fortunato – trombone
    Giacomo Zanus – chitarra
    Federica Michisanti – contrabbasso
    Nazareno Caputo – vibrafono
    Francesca Remigi – batteria
    Paolo Damiani – direzione, contrabbasso e,nella seconda,il quartetto di AMBROSE AKINMUSIRE:
    Ambrose Akinmusire, trumpet
    Fabian Almazan, piano
    Harish Raghavan, bass
    Timothy Angulo, drums

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  2. Grazie della preziosa precisazione, Luciano. Serata molto intrigante e densa, a quanto vedo. La formazione di Damiani è una sorta di dream band del giovane jazz italiano: sarebbe bello far durare e far circolare un poco un’orchestra così articolata e densa di talenti (che tra l’altro possono ricavare molto da un’esperienza del genere, più unica che rara alle nostre latitudini).
    Quanto ad Ambrose Akinmusire, la formazione annunziata mi conferma nell’impressione che stia vivendo un momento di notevole evoluzione. Io lo ho ascoltato a maggio a Correggio, dove avrebbe dovuto salire sul palco con Micah Thomas al piano. Sarebbe stato un bel brivido, ma la provvidenza jazzistica ce lo ha negato: alla tastiera è comparso invece il fido Sam Harris, musicista che peraltro a me piace molto. Nonostante la formazione più sperimentata, si è assistito ad un concerto molto diverso da quelli cui ci ha abituato Akinmusire negli ultimi anni (ne seguiti almeno tre o quattro). Ma questa è materia di una ‘cartolina’ in fabbricazione……. Avrete senz’altro un gran set, Ambrose è musicista di serietà assoluta, quasi intimidente. MIlton56

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