Nel 1982 l’Italia non navigava in acque migliori di quelle attuali: un fragile governo, il primo sostenuto dal pentapartito con a capo Giuseppe Spadolini, lo choc della strage alla Stazione di Bologna ancora incombente, l’attentato a Carlo Alberto Della Chiesa, il mistero della fine a Londra del banchiere Roberto Calvi. Ed un’inflazione galoppante, oltre il 15%, che trascinava la situazione economica verso una dimensione “sudamericana”. Quell’anno, però, l’Italia vinse il mondiale di calcio e l’urlo “Rossi, Tardelli ed Altobelli” attraversò in un carosello unico, tutta la penisola nella notte di domenica 11 luglio, generando quella illusione di unità nazionale che le grandi imprese sportive alimentano. Quella squadra e le foto di Pertini e Bearzot sono tornate in questi giorni a popolare giornali e tv. Persino i Rolling Stones avevano dovuto adattare l’orario del proprio concerto per evitare coincidenze con la finale del Mundial spagnolo.
Io gli Stones li vidi a Napoli sei giorni dopo. Avevo ventuno anni e, come molte esperienze che si fanno intorno a quell’età, l’episodio si è conquistato un posto fisso nel mio personale libro di storia. In particolare, ma non solo, al capitolo Musica, che solo più tardi sarebbe stato riempito di capitoli legati al jazz. Allora c’era solo il rock.
Derogando, quindi, come capita raramente, ai miei doveri di cronista jazz, spero con la compiacenza di lettori e degli amici redattori di TDJ, approfitto della ricorrenza del quarantennale di quell’evento per ripubblicare, con poche modifiche, una cronaca di quella serata scritta una quindicina di anni fa.

C’era da scegliere Torino o Napoli, quella estate del 1982 per vedere i Rolling Stones dal vivo e dato che le date di Torino coincidevano con l’Italia in finale ai Mondiali, con Luigi si decise subito per il viaggio più lungo, abbinato ad una piccola vacanza partenopea da un’ amica, Cinzia. Viaggio in treno con acqua razionata, tenuta e attrezzatura da campeggio, arrivammo a casa di Cinzia , un’ora di corriera da Napoli, stremati e curvi sotto due zaini giganteschi che contenevano di tutto, dai sacchi a pelo a varie scorte alimentari.
Il nostro arrivo in quello stato fu accolto con vivo stupore dai familiari della nostra amica, che, come da manuale dell’ospitalità partenopea, ci avevano già preparato una stanza riservata, con tutti i comforts, compreso thermos di caffelatte per il mattino e scorta d’acqua per rimediare ai black out notturni dei rubinetti.
Il giorno dopo, il concerto. Era un sabato e partimmo di primo mattino di nuovo in corriera per lo stadio S. Paolo di Napoli. Dopo le regolamentari due ore di coda fuori dai cancelli, al solito mezzo schiacciati fra la folla e gli alberi, verso le 13 , aprirono le porte.
Era abbastanza usuale a quei tempi , andando i concerti, dovere affrontare situazioni difficili. In testa alla mia personale lista di pericoli corsi c’è senz’altro Santana al Vigorelli di Milano (1977) concluso dopo un’ora causa molotov e bulloni sul palco, ma ricordo anche un Neil Young a Viareggio mezzo spiaccicato contro gli alberi antistanti lo stadio dei Pini, o l’alluvione che accompagnò il concerto dei Dire Straits a Massa (sempre primi anni ottanta).
Quella volta fu una vera onda umana a presentarsi ai cancelli del S.Paolo, un’onda che tendeva a scavalcare la vigilanza, le barriere e tutto quello che si trovava sul suo cammino. Io, Luigi e Cinzia c’eravamo dentro in pieno, ed entrammo sparati a pressione sul prato dello stadio , già mezzo pieno dopo pochissimi minuti. Era metà luglio, a Napoli , primo pomeriggio e avevamo davanti circa nove ore di attesa prima dell’inizio del concerto. Raccontare le quali nove ore non è così agevole oggi, né credo granchè divertente per chi legge. Il ricordo più vivo che conservo di tutto quel pomeriggio sono le enormi docce collettive poste ai lati del prato di gioco, dove ci si rinfrescava ogni mezz’ora, a turno per non perdere il posto, completamente vestiti. Tempo dieci minuti e si era di nuovo asciutti ed accaldati. Verso le 20,30/21 ecco dal palco le prime avvisaglie, il gruppo di supporto agli Stones, la J.Geils band, che suonarono per un’oretta la loro miscela di potente rock e blues senza però scuotere più di tanto i presenti. Anzi, Luigi dovevo pensare io a tenerlo sveglio, perché dopo avere strenuamente resistito all’attesa prolungata, al sole e al caldo, rischiava di perdersi proprio l’entrata regale sul palco di Jagger e soci (oltre al quintetto base, due sax, John Barge e Bobby Keys e le tastiere di Ian Steward e Chuck Leavell).
Come detto, l’Italia aveva appena trionfato in Spagna e tutti avevamo negli occhi i gol degli azzurri e l’entusiasmo del Presidente Pertini e di Bearzot. E Mick Jagger decise di festeggiare a suo modo entrando in scena con la maglia di Paolo Rossi, guida dell’Italia e capocannoniere del torneo. Per gli Stones non erano proprio anni da Coppa del Mondo però. Arrivato da poco Ron Wood alla seconda chitarra, a fine anni settanta / inizio ottanta avevano deciso di diluire il loro rock in una miscela di funk e disco a volte riuscita (l’hit stellare Miss you) altre decisamente meno (tutto Undercover). L’anno prima però avevano tirato fuori il roccioso Tattoo you , secondo alcuni illustri commentatori, l’ultimo Lp degli Stones degno di un intero ascolto, e il concerto di Napoli ne ripropose ampie porzioni, inframmezzate con alcuni immortali successi del passato.
“Under my thumb” per iniziare, poi sparatissima “When the whip comes down“, quindi l’invito di Mick Jagger :”passiamo la notte insieme” ovvero “Let’s spend the night together“. Tutti in gran forma, con Richards a macinare riffs granitici, Bill Wyman seminascosto fra gli altri e Charlie Watts, al solito imperturbabile a tenere il tempo.
Il palco era una specie di transatlantico su cui Jagger e Wood potevano correre tipo pista di atletica e noi naturalmente vedevamo tutto in formato francobollo, per fortuna aiutati dai megaschermi. Dopo qualche pezzo dagli ultimi album, “Shattered”, “Just my imagination“, la ballad “Beast of Burden“, ecco i colpi al cuore: “Angie”, seguita da “Tumblin’ dice” e dalla allora popolarissima “Miss you”. A quel punto nessuno ricordava più le pene dell’attesa e tutti eravamo in piedi a cantare e applaudire. Poi spazio ai classici “Honky tonk woman” e “Brown Sugar” intervallati da Start me up , con Jagger che arrivava fin sopra il pubblico con una sorta di gru e quindi “Jumping jack flash” e “Satisfaction” per concludere con i fuochi artificiali finali.
La storia definì quella tournee non fra le migliori degli Stones, ma per noi fu comunque un concerto storico, tanto da farci dimenticare che ci trovavamo a un’ora di strada dalla casa di Cinzia e non avevamo alcun mezzo di trasporto per il ritorno.
Ma gli Stones, Napoli, e qualche birra ormai ci avevano rapito.
Bello mi sembra di rivivere quel periodo, come cambiano i tempi e come siamo cambiati. Io cominciavo a suonare, il rock, il blues poi lo studio classico al Conservatorio e tutto il resto.
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Anch’io c’ero e rivivo le stesse emozioni. Appena diplomato parto dalla Sicilia con 4 amici, zaino e sacco a pelo, in autostop. Il resto è già tutto nell’articolo. Poi andai a Perugia per Umbria Jazz e vagabondai per l’Italia. Tornai a casa dopo due mesi. Che estate! Grazie per l’articolo ed i ricordi che ho rivissuto.
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