Ed eccoci nello Young Stage, ospitato nel bel giardino antistante l’ingresso della Rocca. Fano Jazz by the Sea è uno dei pochissimi festival che riserva un palco ad hoc ai gruppi della New Wave jazzistica italiana: lo spazio aperto consente un approccio rilassato da parte di un pubblico ampio a musiche che, proposte in altra formula, avrebbero più difficoltà ad andare oltre i confini di un pubblico specialistico.
Forse a qualcuno degli interessati peserà il titolo di ‘young cat’: parecchi di loro hanno alle spalle anni di palco ed anche esperienze di leadership di gruppi propri, che hanno debuttato con notevole successo di critica. Ho però notato che negli ultimi anni anche i più sperimentati tra questi musicisti hanno mostrato una tendenza a raggrupparsi tra di loro in formazioni che paiono una sorta di ‘all stars’ nostrane, che però si avvalgono di personalità già formate e caratterizzate da uno stile proprio per dar vita a collettivi caratterizzati da una forte immagine di gruppo, frutto proprio della dialettica tra individualità spiccate. Un bel modo di reagire alle ormai annose angustie organizzative della nostra scena, cui si sommano i più recenti strascichi pestilenziali.

I Cyclic Signs di Enrico Morello sono a pieno titolo un caso esemplare di questa tendenza. Morello è alla prima esperienza da leader, condensata nell’omonimo album ‘Cyclic Signs’. Ma è stato il batterista del New Quartet e della Special Edition di Rava, due splendide scuole in cui libertà e creatività individuali sono pane quotidiano: e nonostante il pullulare di talenti in entrambe le formazioni, il beat sottile, danzante e ricco di colori di Morello spiccava subito come elemento fortemente caratterizzante di entrambe le formazioni.
La saggezza del neo leader si rivela da subito nella scelta di Matteo Bortone come secondo pilastro della linea c.d. ‘ritmica’ del quartetto: un basso corposo ed autorevole, capace di sortite solistiche ricche di slancio e passione. E sul suo carnet spiccano già un paio di album firmati a nome proprio con formazioni diverse: oltre allo strumentista di classe, si acquisisce anche l’esperienza ed il mestiere di un leader.
Altrettanta accortezza traspare dalla costruzione della front line, affidata al sax alto di Daniele Tittarelli ed alla tromba di Francesco Lento, altro bel mix di esperienza (Tittarelli) ed energia giovanile (Lento). I due intessono un dialogo molto articolato ed intricato, che rivela accurato e raffinato arrangiamento: aiuta anche il sottile contrasto tra la tromba luminosa ed acuta di Lento e la voce strumentale chiara e morbida di Tittarelli, che di recente sembra molto influenzata dal modello del primo Lee Konitz e di Warne Marsh. Suggestione in qualche modo confermata dal carattere meditativo e riflessivo del complesso della musica del quartetto, alle spalle della quale si intravede un consistente ed incisivo contributo di composizione. In conclusione, una band dal raffinato interplay, una voce originale ed anche un poco appartata nella scena italiana, meritevole di un ascolto attento e concentrato (tra l’altro a Fano li ho visti in sensibile crescita rispetto al concerto di maggio a Correggio).

Con i Ghost Horse si entra invece in tutt’altri territori musicali. La formazione in campo è stata giustamente presentata come una sorta di gotha del nuovo jazz italiano: la sua frontline annovera infatti talenti come Dan Kinzelmann ai saxes, Filippo Vignato al trombone, il versatile Glauco Benedetti che si destreggia tra tuba da marcia, bombardino e pocket trumpet; in funzione di cerniera con la ritmica, Gabrio Baldacci, solo apparentemente dedito alla chitarra baritono, ma in realtà regista e manovratore dalle sue corde delle elettroniche che costituiscono la trama della musica del gruppo.
La musica dei Ghost Horse è una musica di impatto, è fortemente caratterizzata da un massiccio suono di insieme, che lascia spazio limitato a sortite solistiche, che pure meriterebbero in misura più ampia parecchi dei suoi componenti. La compattezza e durezza del fronte sonoro sono certo assicurati, ma a mio avviso al prezzo del sacrificio di una maggior dialogo interno tra solisti molto personali e dotati.
La ritmica massiccia e muscolare (forse un tantino monocorde..) assicurata da Joe Rehmer al basso elettrico e da Stefano Tamborrino alla batteria è del tutto funzionale alla concezione del gruppo, decisamente orientata verso aspre ed inquietanti atmosfere metropolitane; sarà il fresco ricordo delle scansioni sottili e piene di colore di Morello e Bortone, ma la avrei preferita un poco più articolata e duttile. Ma non si può certo fare un torto ai Ghosts del fatto di aprire le loro finestre su di una realtà che certo non ispira in prima battuta abbandoni lirici.
Il massiccio e talvolta brutale procedere della musica è intervallato da rari momenti di distensione (e qui si aprono alcuni spazi per i solisti, particolarmente apprezzato Benedetti alla pocket trumpet, ovviamente il sempre talentuoso Vignato al trombone ed infine l’ingegnoso Baldacci, vero baricentro del gruppo); altre pause sono rappresentate da alcuni scanditi recitativi di gruppo in inglese, senz’altro suggestivi sotto il profilo della drammatizzazione, ma a mio avviso non imprescindibili ai fini dello sviluppo del discorso musicale. In ogni caso, il risultato finale è un mix di tendenze contemporanee di notevole immediatezza ed efficacia, che potrebbe facilmente far breccia soprattutto tra un pubblico giovanile alla ricerca di esperienze d’ascolto più articolate e profonde.
Non resta che augurare ad entrambi i gruppi tante altre date dal vivo per consolidare la propria intesa e guadagnare nuovo pubblico. Il quale ultimo è bene che non ceda alle sirene del ‘nuovismo’ che tanto ispirano il nostro circuito concertistico, seguendo con attenzione la crescita di formazioni così accuratamente concepite. Milton56
‘Idea’ un brano rappresentativo della musica sentita a Fano. Dal loro recentissimo album ‘Il Bene Comune’ (bel titolo, speriamo che risvegli qualcosa…)