Due dei suoi album più famosi si intitolano ‘Fly or die’.
La scorsa settimana ha smesso di volare a soli 39 anni.
Non posso dire di conoscere bene Jaimie Branch e la sua musica; ho però avuto la fortuna di ascoltarla in due occasioni, ed in una devo dire di esser stato spinto più che altro dalle pressioni di amici. La prima volta l’ho incontrata in quella splendida formazione che è stata l’Unruly Manifesto di James Brandon Lewis: un vero vivaio di talenti, nel quale però la Branch spiccava per una nota di energico, ma desolato lirismo che in qualche modo controbilanciava felicemente l’irruente dinamismo del resto della band.
La seconda occasione fu a Mantova, procurata da 4.33, un’associazione che meriterebbe più seguito è più attenzione. Questa volta era di scena un suo quintetto, mi sembra con Chad Taylor alla batteria ed un pregevole violoncellista. Tra l’altro il concerto si teneva in una sala messa a disposizione da un istituto di suore: dubito molto che le pie donne avessero anche solo una pallida idea della crudezza della ‘Love song for assholes and clowns’ che la trombettista avrebbe improvvisato durante il set. O forse no? In ogni caso ironie dell’organizzazione di questa musica, che comunque vive di combinazioni eccentriche e di accoppiamenti tutt’altro che giudiziosi, sono il suo sale.
Ed è soprattutto il ricordo di quest’ultima serata che mi è ritornato alla mente all’improvvisa notizia di una morte senz’altro precoce ed inattesa. Lasciamo ad altri lo scavo un po’ morboso sulle circostanze della scomparsa, sulla quale mancano dettagli, a parte l’appello della famiglia a ricordarla sostenendo le molte comunità tra le quali Jaimie si è calorosamente divisa. Retrospettivamente è riemersa l’emozione che il concerto mi aveva trasmesso: quella di un’assoluta, indifesa e direi quasi scorticata sincerità. La sua musica era affollata di voci e suoni, ma la sua tromba si stagliava su tutta questa vita brulicante sempre con grande nitidezza ed intensità, in una sorta di contemplazione dall’alto solitaria e in qualche misura dolente: c’è della verità nell’accostamento del suo stile a quello di Don Cherry, la cui vena di naivetè conviveva però con un più sicuro ‘uso di mondo’.
Retrospettivamente ho avuto la sensazione che la breve, ma intensa carriera artistica della Branch abbia dovuto molto del suo slancio a una vita probabilmente difficile. In altra occasione ho avuto modo di dire che forse è un bene che il jazz di oggi si nutra di biografie molto più normali e molto meno drammatiche di quanto non avveniva un tempo, ma questo non ci deve fare dimenticare che anche oggi ci sono delle rare meteore il cui splendore è quello della fiamma che le consuma.
Bene ha fatto Enrico Bettinello in un bell’articolo a metter in rilievo la linearità e l’immediatezza che contraddistinguevano la persona e l’artista Jaimie Branch, che spiccano su di un panorama attuale che invece vede molto più spesso una curata coltivazione del sé e dell’immagine. Nello stesso pezzo si rammenta poi che il compenetrarsi ed il contribuire ad ambienti musicali così diversi da formare una galassia, proposito ed argomento retorico abusato da molti, per Jaimie era autentica pratica di vita.
Oggi siamo assediati da tanta musica ben confezionata, accattivante, fatta apposta per farsi largo in un’ascolto bulimico e stanco con lustrini e paillettes buoni per la seduzione di un giorno solo. Il modo migliore di ricordare Jaimie Branch sarebbe quello di mettere da parte per un poco la serialità ed il rassicurante nitore esteriore della maniera, riservando invece un’attenzione più duratura ad una musica forse punteggiata da asprezze e possibili squilibri irrisolti che attendevano una futura maturità per raggiungere esiti formali più compiuti. Diversamente sprecheremmo un dono di vissuta intensità che ancora oggi nella nostra ‘media normalità’ è costato molto caro a chi ce lo ha portato. Milton56
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