Cartoline da Jazz&Wine/3 Due si e due no

Arrivati al terzo giorno consecutivo e con sulle spalle molte ore di musica, il vostro cronista accusa legittimamente stanchezza fisica e mentale, la conseguenza è che la soglia di tolleranza verso proposte lontane dal gusto e dalle idee di chi scrive scema di gran lunga. Ecco spiegato il titolo del post, che in breve riassume la giornata odierna: due buoni concerti e due no.

Mettiamo dei paletti: il rispetto verso il lavoro dei musicisti è dovuto in ogni caso e, come ben sapete, le mie sono le opinioni di un semplice appassionato che si rivolge ai propri pari senza pretesa di verità assolute.

Iniziamo dal concerto mattutino dei Guantanamo, il sestetto di Fabrizio Puglisi che coniuga la propria proposta musicale all’insegna dell’afro-cubanismo senza però risolvere il tutto in una orgia percussiva fine a se stessa, ma calibrando e integrando alla perfezione linee melodiche e ritmi percussivi. Un set divertente, con richiami a temi immortali del jazz dei grandi maestri, da una frizzante versione di Ezz-thetics di George Russell, alla calibrata Directions di Joe Zawinul, per finire con la magnifica Un poco loco di Bud Powell. Nel mezzo, temi del leader che riflettono l’affiatamento di un gruppo che esiste da più di dieci anni.

Il concerto del primo pomeriggio vede sul palco i Sex Mob guidati dal trombettista Steven Bernstein. Un gruppo molto rodato, dalle sonorità urbane, che riflettono con forza l’ambiente e la cultura newyorkese. Brani che spaziano dalle colonne sonore alle cover affrontati con un suono ruvido e abrasivo irrorato dalla consueta ironia a cui il leader ci ha abituato. Wollesen e Scherr scandiscono tempi implacabili sui quali Krauss e Bernstein si innestano ora con ferocia, altrimenti con un suono sporco e graffiante che lascia il segno e convince. Bellissimo set.

Arriviamo alfine ai no di cui vi parlavo. Fire Italian Defeat non mi ha convinto, e, nei commenti del dopo concerto, la maggioranza esprimeva più o meno la stessa parziale delusione. Una formula un po’ stantia, che può reggere solo se ad interpretarla sono grandi personalità: un riff di basso elettrico subito sostenuto dalla batteria e ripetuto ad libitum anche dai fiati, mentre a turno si prendono gli assoli. Troppo poco per reggere un intero concerto. Per di più il sax baritono di Gustavsson e il clarino di Zoe Pia sono rimasti inudibili per gran parte del set. I due hanno sicuramente fatto la felicità dei fotografi per le pose assunte con gli strumenti, meno quella degli spettatori, e anche quando si sono avvicinati ai microfoni quello che si è udito non ha impressionato ne convinto. Peccato.

Foto Tore Saetre

Il secondo no era, a mio parere, ampiamente annunciato. Ci può stare che all’interno di un festival che dura diversi giorni si proponga qualcosa di diverso (magari però non la sera principale…). In fondo grandi festival internazionali mettono in cartellone cantanti e gruppi rock di ere geologiche antecedenti, quindi che Controtempo proponga Bugge Wesseltoft non è un sacrilegio ma un tentativo, a mio parere poco riuscito, di allargare il pubblico potenziale. Però quando si va a pesare la musica le considerazioni sono agre: se la musica jazz, per usare termini churchilliani e ‘ all’insegna di sangue, sudore e lacrime, quella del duo norvegese riflette estetismi, patinature, superficialità. Insomma, perfetta per le discoteche di Ibiza, un po’ meno per il pubblico di Jazz&Wine che, va detto, nella stragrande maggioranza è canuto o sfoggia pettinature alla Yul Brinner, di conseguenza artrosi e fasce del dottor Gibaud rendono problematico il danzare al ritmo dei software dei computer. Cercare jazz in questa musica è come cavare sangue dalle rape. Dopo quaranta sofferti minuti ho alzato bandiera bianca e abbandonato la tenzone. Ne andava della mia salute.

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