Quattro come i musicisti coinvolti, quattro come gli amici scomparsi ai quali la musica è dedicata. Il trombettista Ron Miles, anzitutto, molto legato a Bill Frisell, e poi il produttore Hal Willner, il disegnatore Claude Utley e l’amico d’infanzia Alan Woodward. Il nuovo disco di Bill Frisell “Four“, il terzo per la Blue Note, nasce da intime riflesssioni legate alla recente perdita di affetti e persone care, per sviluppare una propria originale voce, un suono leggero come una piuma e compatto come il granito, costruito con il contributo dei compagni di viaggio, il pianista Gerald Clayton, il batterista Jonathan Blake ed il sassofonista e clarinettista Gregory Tardy. In pochi casi, come in questo, capita di essere portati a trascurare gli apporti al risultato finale dei singoli musicisti per porre, invece, in risalto il collettivo e la propria capacità aderire ad un canone espressivo assolutamente omogeneo. Della voce dei quattro, naturalmente, è componente fondamentale l’estetica della frontiera di Frisell, quell’attitudine a rielaborare contenuti tradizionali della cultura musicale americana che è diventata una sorta di marchio di fabbrica del chitarrista di Baltimora. Un’impronta che viene però assorbita e rielaborata dal gruppo – il sax, e più spesso il clarinetto, coprotagonista della chitarra, il lirico pianoforte di Clayton e la batteria dominatrice dei tempi dispari di Blake – aggiungendo nuovi stimoli e sfumature ad un lessico ben conosciuto.
Nei tredici brani di “Four”, nove originali e quattro rielaborazioni di vecchie composizioni autografe, convivono il blues (iterativo quello di “Monroe”, destrutturato in “Blues from before”, e disteso in forma di ballad, dopo un avvio astratto e minimalista, nella finale “Dog on the roof”), le descrizioni immaginifiche (le atmosfere di “Claude Utley” magnificamente in bilico fra dramma e commedia, il mistero di “Wise woman”), il tono quasi pudico delle elegie dedicate agli amici perduti, che apre il disco in modo raccolto con il ricordo di “Dear old friend” e segna la splendida “Waltz for Hal Willner”, dedica al produttore visionario che in molto suoi lavori volle presente la chitarra di Frisell; ed ancora le incursioni in terra Americana di “The pioneers” e di “Good dog, happy man”. Un universo compiuto nel quale, senza alcuna distonia, possono entrare estremi opposti, un intimo momento di pianoforte solo (“Always”), come la marcetta grottesca e funkeggiante di “Holiday”, il mood sognante del sassofono circondato dal pianoforte e dai piatti di “Invisibile” o una rilettura a tinte tenui, con il clarinetto in evidenza, del Frisell più avventuroso e fiammeggiante di “Lookout for hope”.
E’ (più o meno) tutto qua, “Four”. Ed è uno dei migliori fra i dischi recenti di Frisell.
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