La tragicomica apparizione a Sanremo 1968 di Armstrong, interrotto da Pippo Baudo
Erano prevedibili le reazioni negative alla sortita di Corrado Beldì volta ad ottenere per il jazz un qualche spazio di visibilità (mi verrebbe quasi da dire di testimonianza…) nel gran calderone di Sanremo, ormai neppure più quella sagra del Nazional-Popolare che era molti anni addietro, ma autentica celebrazione del kitsch più sfrenato.
Comprensibili molte delle obiezioni che sostenevano la filippica del collega Rob53: la totale irrilevanza del Festival anche nel rappresentare le effettive tendenze del pop più commerciale, l’improbabilità di un appello ad un personaggio iconico dell’oligopolio della radiofonia commerciale (ah, la grande occasione perduta con la cessazione del monopolio pubblico dell’etere….), che è una delle principali responsabili dell’appiattimento e dell’impoverimento del paesaggio sonoro italiano. Dal canto mio potrei anche aggiungere che Sanremo è nata ‘contro’ la diffusione delle ‘musiche americane’ nel secondo dopoguerra secondo un preciso mandato conferito dall’establishment musicale e culturale italiano ai vertici della neonata RAI, che riuscirono nell’impresa di creare quasi dal nulla una musica di consumo che cancellasse il ricordo sia della musica di matrice più autenticamente popolare che delle perniciose influenze d’oltreoceano che erano state la vera colonna sonora della Liberazione.
Dobbiamo quindi archiviare l’uscita di Beldì come una bizzarra boutade per raggranellare qualche link e qualche click sul web, un espediente un po’ pop per richiamare attenzione sul jazz? Non mi sembra proprio che questo sia il caso. Il curriculum del cofondatore di Novara Jazz (uno dei festival più innovativi e rigorosi di tutta la scena italiana) non depone certo a favore di una sua ingenuità un po’ naif e meno che mai di un furbesco e cortigiano ammiccamento all’industria del pop creato in laboratorio.
La sortita di Beldì di fatto pone una questione alquanto spessa: è possibile accettare passivamente e rassegnatamente la totale obliterazione del jazz di qualsiasi tendenza dalla scena musicale più ampia di questo paese? A mio avviso è una domanda che tutta la piccola comunità del jazz deve porsi seriamente, tenendo presenti almeno due questioni.
Primo, se il jazz non ha diritto di cittadinanza nello spazio musicale quotidiano nostrano, viceversa il pop invade in modo sempre più evidente i risicati e stentati spazi in cui il primo si gioca la sua sopravvivenza ed il suo rapporto con gli ultimi mohicani che ancora lo sostengono. Logica vorrebbe che valesse una certa reciprocità, ed invece assistiamo ad una colonizzazione a senso unico, che in gran parte va sul conto dei direttori artistici che la consentono, trascinandosi dietro anche parecchi musicisti, che nei casi migliori devono pure far buon viso a cattivo gioco. Mentre il pop – e soprattutto quello più artificiale e plastificato – gode di ampii spazi e visibilità (spesso del tutto sproporzionati alla sua consistenza ed originalità, oggi si parla dei Maneskin infinitamente di più di quanto non si facesse con i Beatles nel 1965), di fatto il jazz è del tutto sparito dall’orizzonte di ascolto e di semplice conoscenza di almeno due-tre intere generazioni di italiani.
Secondo. Quella di chiudersi di chiudersi orgogliosamente in quelle che io chiamo le ‘riserve indiane’ non è forse una scelta perdente? Il non tentare nemmeno una sortita nello spazio pubblico più ampio tra l’altro non giova nemmeno alla crescita di proposte fresche ed innovative all’interno, favorendo una certa astrazione ed autoreferenzialità già percepibili. Un esempio significativo viene da quel che resta della programmazione jazzistica nella radiofonia pubblica: è ben poca la capacità attrattiva e men che meno didattica verso un pubblico non specialistico (e direi fortemente specialistico…), che facilmente ne può uscire confermato nei suoi radicati preconcetti circa il jazz come musica astrusa e respingente.
Non si tratta né di ‘svendersi’, né di imbellettare con trucco ruffiano le proprie proposte, ma semplicemente di non rifiutare, ma anzi di cercare il contatto con un pubblico ampio, tenendo presente le sue capacità ricettive. Del resto Sinatra non approfittava del suo appeal per imporre al pubblico di Las Vegas la sofisticata big band di Quincy Jones? Oppure vogliamo ricordare Rashaan Roland Kirk che a furia di contestare l’assenza del jazz nei popolari talk show della tv americana finì per espugnare addirittura l’Ed Sullivan Show con effetti dirompenti?
Certo, per tentare queste sortite in campo aperto bisogna saper entrare in rapporto emotivo con un pubblico più vasto e non specialistico. E’ vero che sin dai tempi della rivoluzione bebop del secondo dopoguerra il jazz ha rinunziato ad essere una musica di massa, ma ciò non gli ha impedito di fiutare a tempo debito l’aria del tempo piazzando dei clamorosi ‘hits’ che lasciarono il segno. Pensiamo al ‘Take Five’ di Brubeck/Desmond (che penso sia arrivato persino in Corea del Nord), al travolgente ‘SIdewinder’ di Lee Morgan oppure al ‘Watermelon Man’ di Hancock che precorse di anni l’ondata funky degli anni ’70.
Il nostro jazz odierno ha la capacità di creare un ‘hit’ del genere, capace di coinvolgere un pubblico più largo? E’ una sfida per i musicisti, ma anche per la pattuglia degli appassionati di lungo corso, che spesso hanno guardato con una certa sufficienza ad esperienze come quelle che vengono recentemente da Londra e Chicago e che hanno dimostrato sia una fresca vitalità che la capacità di coinvolgimento di un pubblico sensibilmente più giovane. Il jazz vive se riesce a rimanere in contatto con la ‘Strada’, non se ottiene modeste cooptazioni in nicchie accademiche in cui si è ormai da decenni consumata l’afasia e l’isterilimento della c.d. ‘musica contemporanea’.
Il sasso ha agitato lo stagno: ignorarlo rende abbastanza ozioso lamentare il mancato rinnovamento generazionale del pubblico jazz od i vuoti in platea che giustamente immalinconiscono alcuni. My five cents, come al solito; benvenuto il dibattito. Milton56
Hits? Qui siamo sulla buona strada….. peccato che in RAI non si siano accorti di questo bel brano di ‘Ojos de Gato’, gran bell’album di Giovanni Guidi con una band in gran spolvero
Analisi puntuale e circostanziata della quale condivido ogni parola. Se si passa alle strade per uscire dalla “riserva indiana”, la faccenda si complica parecchio e il quadro che emerge è sconfortante. Il primo equivoco è che se per un americano e credo anche per un britannico accostare un brano funky danzereccio e un attimo dopo un brano “astratto” magari tendente al free è cosa frequente se non abituale e i musicisti non vengono squalificati o peggio additati come venduti. Il pubblico può riflettere sul messaggio anche se non sta assorto ad ascoltare come se stesse approcciando alla musica di Mahler o di Richard Strauss
Tanto per citare un grande maestro, Shepp non smette di essere tale se passa da “The way ahead” a “Things have got to change” . In parole povere, cerchiamo di scrollarci di dosso (io per primo) le nostre “incrostazioni europee” per cui la musica seria si ascolta come se stessimo leggendo un saggio di filosofia morale, mentre ciò che ci invita a muovere il bacino e le gambe è intrattenimento spesso di terz’ordine.
Capitolo Rai, qui è come sparare sulla Croce Rossa, se la diffusione del jazz passa dai volti sorridenti e “piacioni” di Bollani e Cenni, il messaggio non passa e, temo, che non si conquistino i giovani facendo sentire del “piano bar” magari acculturato, ma pur sempre tale. La radiofonia è il tasto dolente da tempo e, a parte qualche radio privata che meritoriamente difende la nicchia e si sforza di fare opera di divulgazione, una ventina scarsa di puntate estive di “Body and soul” e qualche spazio confinato nel calderone di “Battiti” per di più con quell’approccio intellettualistico da dibattito da cineforum non giovano certo alla causa.
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Roberto, innanzitutto grazie per l’interlocuzione, ci fa sentire un po’ meno soli in questo lavoro. Dunque, perfettamente d’accordo sul fatto che se qualcuno balla su certa musica, la medesima non debba esser per questo considerata di serie B…. Potrei citare l’ultima tourneè dei Son of Kemet di quest’estate, dove ben 700 persone si sono date appuntamento a Fano tenendosi in tasca per un anno il biglietto (il concerto era saltato nell’edizione precedente). Dopo mezz’ora non c’era più nessuno seduto al proprio posto, e ti posso assicurare che la musica non era affatto ‘piaciona’, ma aveva un impatto ed una durezza da far impallidire molti odierni epigoni del free. Altrettanto succedeva spesso in un noto teatro milanese dove venivano presentati gruppi che oggi figurano nei cataloghi di etichette che più ‘avant’ non potrebbero essere. Del resto anche nei kolossal del buon Mahler ce n’è parecchia di ‘musica del mondo’, convogliata spesso in uno slancio dionisiaco (direttori ed orchestre permettendo…… non a caso da tempo in Italia mi sembra ben poco eseguito…). E veniamo alla questione dei media. Su Bollani sorvolo, non lo vedo nemmeno: primo perchè mi sembra una vera ‘tragedia del talento’ (dilapidato), secondo perchè il nepotismo su scala di famiglia allargata mi provoca serie reazioni allergiche. La radio: il peggio è che si è perduta anche la capacità di produrre un po’ di musica dal vivo. Temo che il noto Studio A di Via Asiago sia ridotto ormai ad un cimitero di fotocopiatrici dismesse, mentre negli anni ’70 ed ’80 ospitava concerti di livello internazionale, molti dei quali poi salvati su dischi ora di problematica reperibilità (Fonit Cetra, una prece…). Tra l’altro questo favoriva una condivisione di esperienze tra musicisti nostrani e stranieri, mentra la diretta radiofonica di concerti rappresentava spesso il loro stesso presupposto di fattibilità, con il concorso di RAI ai costi. Comunque se Roma piange, Lugano non ride: Radio Svizzera Italiana 2 ha chiuso ‘Birdland’: mi dice fonte di prima mano che la decisione si inserisce in un più ampio ripensamento ed aggiornamento della programmazione. Forse ci invidiano Linus…. Milton56
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Una notizia che non avrei voluto leggere.
Ho visto dai podcast che Birdland dall’autunno andava in onda un giorno alla settimana.
Speriamo che sia soltanto una riorganizzazione del palinsesto, ma ho cattivi pensieri a riguardo. Teniamoci stretta una nota radio milanese con la sua meritoria programmazione, che va pure in onda gratuitamente sul satellite e auspichiamo che qualche spazio al jazz che, timidamente, fa capolino su Rai Radio Tre Classica, prenda piede e pazienza se qualche “parruccone” ( come mi è capitato di leggere) se ne lamenta a dispetto della “purezza” dei palinsesti.
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Roberto, spero che su Birdland abbia ragione tu. La mia informazione comunque proveniva direttamente da uno dei conduttori italiani. Sto pensando di scrivere a RSI 2 invitandoli a mantenere quantomeno online i podcasts, che nell’insieme costituiscono una vera e propria enciclopedia multimediale del jazz; speriamo che l’iniziativa non sia accolta con patetica degnazione (ahimè lo spazio web costa…). Ancora su RadioTre Jazz: talvolta vanno in onda registrazioni di gran livello che provengono dal circuito Euroradio, alimentato soprattutto da stazioni tedesche e scandinave. Mi domando: ma noi con che cosa ricambiamo? Con la proverbiale faccia di bronzo italica? MIlton56
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Non è un segreto che la Radio pubblica italiana (aka RAI) abbia abdicato da anni ad una narrazione coerente o per lo meno decente di ciò che accade in ambito jazz, oltre che aver rinunciato scientamente ad attingere a certi archivi sontuosi che negli anni 80/90 regalavano trasmissioni e approfondimenti che possiamo solo sognare. Il povero Pino Saulo fa quel che può, riscalda un po’ di minestre spesso giù ribollite, ma alla fine è il classico cane in chiesa, preso a calci dal primo che passa. Potremmo attivare TdJ presso gli amici della Radio Svizzera Italiana per vedere cosa succede a Birdland e in generale alla programmazione del secondo canale, che tratta il Jazz come Dio comanda e capire se questi voicing hanno un peso specifico, Grazie a Roberto per l’attenzione e il consueto supporto critico.
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