Londra è la città, fra quelle visitate, con la quale mi sento maggiormente in sintonia. Dalla visione del film”Fumo di Londra”, da ragazzino, ad alcuni soggiorni in età adulta, ripetuti a distanza di anni, durante i quali ho potuto constatarne i cambiamenti – inclusa la pressoché totale scomparsa degli amati store records – corre un filo di sottile e dolce malinconia che identifico in alcune strade, piazze e luoghi tipici della metropoli sul Tamigi. Jonathan Coe è lo scrittore contemporaneo che, a mio parere, ha meglio saputo rappresentare, con romanzi quali “La banda dei brocchi” , “La famiglia Winshaw”, “Circolo chiuso “ o “Middle England” la società britannica, con i suoi pregi e difetti, le sue idiosincrasie e contraddizioni, in una dialettica che coniuga l’affetto dell’appartenenza ad uno sguardo critico e talora ferocemente sarcastico verso i valori della britishness. E spesso, nelle sue opere, anche in virtù di una circostanza anagrafica (è nato sei giorni dopo di me) ho ritrovato quella sintonia londinese. In realtà, prima di diventare scrittore a tempo pieno Coe è stato musicista, con il Peer Group da lui fondato negli anni ottanta sull’onda di una profonda ammirazione per la scena del prog jazz britannico del decennio precedente, nata intorno a Canterbury, e per musicisti quali Dave Stewart o Pye Hastings, i Soft Machine, i National Health (il cui “The rotter’s club” rappresenta anche il titolo originale de “La banda dei brocchi”) od i Caravan. Musica molto complessa che richiedeva doti tecniche non propriamente a disposizione delle tastiere di Coe. Il quale però, accanto alla scrivania ha conservato una tastiera, sulla quale tuttora si diletta a comporre ed eseguire musica originale, giungendo anche a dare vita a due raccolte «Unnecessary Music» e «Invisible Music», disponibili su bandcamp; musica eseguita in solitudine, quasi dei demo di brani da sviluppare, realizzati senza alcuna pretesa, come reso palesemente evidente dai titoli scelti. La passione per il jazz britannico e quella musica definita dall’autore “complessa ma affabile ed accessibile” è stato il collante che ha portato Coe a questa collaborazione con l’italiana Artchipel Orchestra diretta dal batterista Ferdinando Faraò, già da tempo attiva su quegli stessi versanti stilistici, e ad una serie di date dal vivo in un programma molto applaudito che sta proseguendo anche in queste settimane (il 17 dicembre è in programma un concerto a Rho, Teatro Roberto da Silva). Il concerto del 30 ottobre 2021 al Teatro della Triennale di Milano dell’Orchestra è stato registrato e pubblicato con la rivista Musica Jazz attualmente in edicola, ed è una bella sorpresa perché ascoltando i cinque lunghi brani del cd a confronto con gli sforzi solisti del Coe musicista, si può percepire quanto abbia giovato il trattamento orchestrale operato da Faraò e dalla sua nutrita orchestra.
Do ragione a Coe nell’uso del termine “affabilità” per descrivere questa musicanata sulle orme dei propri eroi, ma unirei anche leggerezza, ariosità ed, in ragione della veste qui conferita ai brani, anche attitudine al moto improvviso. Le estese esibizioni evidenziano infatti temi cantabili, affidati ai fiati o alle voci senza parole di Naima Faraò e Francesca Sabatino e spesso sottolineati dal vibrafono di Luca Gusella, esuberanti scansioni ritmiche ed ampie sezioni dedicate all’improvvisazione dei numerosi solisti. L’iniziale “I would if i could but i can’t” mette in mostra tutti gli elementi citati, affidando il proprio sviluppo arioso ad una ritmica elastica e funky ed al motivo ripreso nella parte finale dalle voci, mentre la successiva “Suspended moment” coinvolge flauto e rhodes nella costruzione di un’atmosfera più densa e carica di pathos, accentuata dall’uso iterativo del tema iniziale e da momenti di pieno orchestrale, che sfocia poi nel disteso motivo rilanciato dalla chitarra di Giuseppe Gallucci. “Erbalunga” parte da una dimensione astratta con flauto e fisarmonica in libero dialogo per acquisire struttura nel tema sincopato e scattante che vede protagoniste le voci ed il vibrafono, e spazio nella successiva parte riservata ai solisti alla fisarmonica, vibrafono, trombone prima del ritorno alla esposizione collettiva del motivo di partenza. Un raffinato gioco di incastri vocali introduce i quindici minuti di “Looking for Cicely”, morbidamente sostenuta dal basso di Gianluca Alberti e dall’ostinato del vibrafono, con un intensa parte in solo del flauto che “risveglia” gli altri fiati lasciando spazio al sax baritono di Rosarita Crisafi ed all’organo.
La conclusione è riservata al pezzo che preferisco: ascoltate “Spring in my step” nella versione solo Coe e poi in questa veste, e potrete apprezzare l’arricchimento che Artchipel ha portato alla struttura originale del brano. La chitarra elettrica scandisce l’evocativo tema in crescendo sulla base ritmica di percussioni e vibrafono e tutta l’orchestra si unisce in una sorta di inno di celebrazione collettiva che attraversa tutto il brano, cucendo il finale all’apertura, al termine di uno sviluppo articolato in una grande varietà di timbri ed armonie.
Ecco i componenti dell’Orchestra : Marco Fior(tromba), Alberto Bolettieri (Trombone), Rudi Manzoli (soprano), Andrea Ciceri (Alto), Germano Zenga (tenore), Rosarita Crisafi (Baritono), Alberto Zappalà (clarinetto basso),Carlo Nicita (flauto), Paola Tezzon (Violoncello), Luca Pedeferri (pianoforte, fisarmonica), Luca Gusella (vibrafono), Giuseppe Gallucci (chitarra), Gianluc a Alberti (basso elettrico), Stefano Lecchi (batteria), Lorenzo Gasperoni (percussioni) Naima Faraò, Francesca Sabatino (voci), Ferdinando Faraò (direzione)
E naturalmente Jonathan Coe, che le cronache dai concerti riportano concentrato ed a sguardo chino sulle sue tastiere, con un sorriso sornione che ogni tanto gli si disegna sulla bocca.