CARTOLINE – UMBRIA JAZZ WINTER – 3. IN BIANCO E NERO

Dal Vostro infiltrato speciale ad Orvieto

E siamo arrivati all’ultimo racconto di Umbria Jazz Winter 2022. Mi sono tenuto per ultimi i pianisti, sui quali avevo in entrambi i casi appuntato molte curiosità ed aspettative. E sono stati tutti e due appuntamenti a sorpresa, ciascuno a modo suo.

Kris Davis è un’enfant prodige originaria del Canada, il tranquillo paese che ci ha dato Oscar Peterson, Gil Evans e Paul Bley, giusto per far qualche nome. La sua è ormai una presenza consolidata sulla scena newyorkese da quasi vent’anni, dove si è distinta per una grande varietà di collaborazioni che ne denotano la versatilità e la capacità di inserirsi nei contesti più diversi. Dopo aver collezionato molte collaborazioni di primissimo livello, più recentemente è apparsa con frequenza al fianco della sassofonista Ingrid Laubrok (con cui è evidente una notevole affinità) e nel composito gruppo di Walter Smith III. E proprio questo curriculum così variegato, unitamente al fatto che in sostanza si trattava di un quasi debutto italiano, ad indurmi a prenotare ben due concerti in solo della Davis.

Un affollato album in cui la Davis è padrona di casa: una prima occasione di vederla al lavoro come leader di organici compositi

Primo appuntamento da metter tra parentesi: molti esordienti americani prendono quanto mai sul serio la loro prima apparizione ad Umbria Jazz (potenza del suo passato…), soprattutto se intuiscono la presenza in platea di una nutrita schiera di critici e professionisti del settore. Anche Kris non mi sembra aver fatto eccezione, e con la serietà che la contraddistingue mi è sembrato che abbia affrontato questo primo appuntamento un poco come una sorta di saggio di diploma……. Il secondo concerto è stato più rilassato. Percepita forse una platea meno specializzata ed orientata, una statica rigidità ed una certa schematica intenzionalità si sono alquanto allentate.

Intendiamoci, anche il concerto del 31 dicembre è iniziato con una decina di di minuti di ostinato e macchinale minimalismo, punteggiato ad ampii intervalli da microvariazioni che avevano il sapore di autentici eventi; molto contenuto il ricorso al piano preparato che invece aveva dominato un’intera sezione del primo concerto. Ma dopo la musica ha cominciato con gradualità ad animarsi in una sorta di lento vortice caratterizzato da vistosi contrasti dinamici e timbrici. Con un laborioso travaglio animato da blocchi di accordi e da una propulsiva linea di basso, nettamente ed energicamente scandita dalla sinistra, hanno cominciato ad emergere frammenti tematici di palpabile ispirazione monkiana, composti solo alla fine in un’enunciazione piena e completa.

La parola a Kris Davis, nelle pause qualche scampolo di musica che mi sembra pervenire proprio dal concerto di cui vi sto parlando. Purtroppo non c’è disponibile altro…..

Dopo una breve pausa, è stata la volta di un brano aperto all’insegna di un marcato puntillismo, inframezzato da pause in grado di generare tensione: successivamente il discorso si è evoluto verso una maggiore densità, attraversata da improvvisi lampi. Nonostante la persistente rarefazione, sono balenati anche fuggevoli momenti di lirismo. Altra marcata differenza rispetto al primo concerto del 29 è stata quella di un suono dai colori più articolati e sfumati rispetto alla sostanziale monocromia del set precedente.

La Davis si è confermata musicista di grande interesse e ricchezza di idee: forse avrebbe meritato di svolgerle in un ambito più ampio e diversificato di quello del piano solo, ma mai come quest’anno il budget è stato tiranno, ed il cartellone non vedeva musicisti in grado di unirsi a lei in quelle estemporanee jam sessions che sono una delle caratteristiche più interessanti del festival di Orvieto. Aspettiamo di risentirla in un contesto di gruppo da lei plasmato.   

Ethan Iverson

Ethan Iverson è ormai un veterano di Umbria Jazz Winter, ma di fronte ad un Teatro Mancinelli gremito il primo dell’anno ha esordito con un meravigliato “Ma quanta gente!”. Ed ha proseguito: “questa non è una working band (un gruppo stabile, N.d.R.). Abbiamo provato un paio d’ore per il Progetto Bacharach (quello con Dianne Reeves e l’Umbria Jazz Band N.d.R.), ma quando si amano gli stessi dischi e gli stessi song non c’è bisogno di grandi prove”. Si stenta a crederlo, alla luce della serata magica che è seguita, dove il trio con Peter Washington al basso e Dan Weiss alla batteria ha dato una scintillante dimostrazione di cos’è il mitico ‘interplay’ jazzistico.

Naturalmente il set si è sviluppato inanellando una serie di standards, scelti però tra quelli più raffinati e significativamente legati alla memoria di grandi caposcuola afroamericani. L’approccio di Iverson a questi classici è stato caratterizzato da una dinoccolata souplesse, da una grande economia di mezzi: i temi sono tratteggiati in punta di penna come dei bozzetti. Ne risulta l’impressione di un sottile e quasi ironico distacco, il che quadra con la consolidata reputazione di ‘musicista intellettuale’ che da tempo segue il pianista.

Quasi a sparigliare questa leggerezza è giunta l’apparizione sul palco dell’armonicista Gregoire Maret, che con il suo affilato ed acuto strumento ha apportato al trio una sfumatura di maggiore intensità su di un notevole ‘The man I Love’, al termine del quale l’elettricità che già correva in platea si è trasformata in un vero corto circuito destinato ad alimentare tutto il resto del set. Peccato che si sia trattato dell’unica jam session cui ho assistito, in altre edizioni queste sortite improvvisate erano un must di Umbria Jazz Winter.

Si ritorna al trio con “All the things you are”. Iverson chiosa: “Kern odiava le trasposizioni jazzistiche dei suoi songs’. Si dia pace Kern, pensi ai fiumi di diritti incassati grazie ai jazzmen cui si deve in gran parte il consolidamento della sua fama. E poi avrei proprio voluto vedere cosa avrebbe avuto da ridire su quello aereo e mobilissimo di Iverson, venato da una sottile astrazione e da una concentrata concisione che confermano le radici tristaniane di Ethan.

Questo prodigio di leggerezza ed equilibrio non sarebbe stato peraltro possibile senza il fondamentale contributo di Dan Weiss: se Trane ha creato gli ‘sheets of sound’, a Weiss si debbono ariose ‘cortine di piatti’ che costituiscono la spina dorsale del suo drumming, contrappuntato da accenti morbidi e sfumati sui tamburi. A dare fondamenta al tutto è stato il dinamico, morbido e propulsivo ‘walking bass’ del veterano modernista Peter Washington.

Incombe il cambiamento di palco per il successivo set dei Mingus Centennials. Iverson negozia con una platea ormai ribollente altri due brani. Uno è un basiano ‘Stompin at Savoy’, dove per un attimo il pubblico perde le inibizioni da teatro e per un minuto solo accompagna alla perfezione il raffinato drumming di Weiss. Poi per me arriva il colpo sotto la cintura, un dilatato e rarefatto ‘Lover Man’ (‘uno dei pochi evergreen scritti da un jazzman, Ram Ramirez’, annota il sempre didattico Iverson), in cui brilla ancora una volta la vena di astrazione del pianista.

Fossi in Iverson, dopo una performance così smagliante e soprattutto di fronte alla rovente accoglienza di un pubblico non occasionale, farei una riflessione sulla possibilità di raffermare stabilmente la ‘not working band’. Anche per consentirle di lasciare qualche testimonianza discografica che al momento manca del tutto, persino in forma di semplice clip: ancora più che in altre occasioni, qui un vero crimine.

Provo a consolarvi con un altro splendido standard moderno, ‘Along come Betty’ del trascurato Benny Golson, tratto da un gran bell’album di Iverson di qualche anno fa, con un altro trio di gran lusso: Ron Carter al basso e Nasheet Waits alla batteria. Milton56       

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