Bergamo Jazz è un appuntamento molto importante nel panorama jazzistico italiano: e questo non solo per la sua storicità (risaliamo alla fine degli anni ’70, se non sbaglio), ma anche per la consolidata apertura internazionale, caratteristica rara nel nostro panorama (soprattutto se non si punta scopertamente a risultati ‘di cassetta’ come avviene altrove)
L’edizione 2023 ha visto un grande successo di pubblico: al di là dei 1.100/1.200 spettatori fissi ogni sera al Teatro Donizetti e della massiccia vendita di abbonamenti (tra l’altro proposti a prezzo molto interessante), era visibile ovunque una partecipazione che ha saturato tutti i diversi siti del Festival. Una partecipazione che è stata anche ‘di qualità’, come si è constatato in diverse occasioni decisamente impegnative: è evidente e forte il legame con la città, ma anche con un’affezionata aliquota di pubblico che viene da fuori.
L’esordio è stato al Teatro Sociale di Città Alta con il trio MixMonk capitanato da Joey Baron, un veterano di mille battaglie alla batteria, che però ha saputo mostrare un nuovo volto che forse ha spiazzato qualcuno. Non è in dubbio la convinzione che ha portato Baron a scoprire i due musicisti belgi che lo affiancano da anni nel trio. Le originali riletture monkiane delle origini sono ora affiancate da materiali di altra origine (ha colpito un Neal Hefti per Basie). Il drumming di Baron è sparso, sottile e tutto centrato sulle sfumature timbriche e dinamiche, a scapito della potenza. Bram de Looze al piano e Robin Verheyen ai saxes sono perfettamente in linea nel contribuire ad una musica sottile ed affascinante, talvolta dalle tonalità notturne, una vera trina sonora che ha richiesto un ascolto molto attento e concentrato (che non è mancato, ad onore della platea del Sociale). Al vostro cronista sono decisamente piaciuti; giudicate voi….
Un Mix Monk un po’ datato, ma dovrebbe dare un’idea
Panorchestra era da anni un sogno nel cassetto di Tino Tracanna. Ed è proprio vocazione dei grandi festival come Bergamo Jazz quella di realizzarli mettendo in campo mezzi organizzativi ed economici del tutto impensabili nella routine concertistica quotidiana. Soprattutto se si parla di progetti per grande organico, che sulla nostra scena jazzistica rappresentano una specie in via d’estinzione (o forse già un fossile).
La brevità dei tempi di preparazione è lo scotto da pagare alla realizzazione del sogno. Ma la sicura mano di Tracanna ha saputo minimizzare il rischio: prima di tutto con la scelta di un vero deus ex machina come Alfonso Santimone, un uomo che sta cumulando notevole (e rara) esperienza nel difficile artigianato dell’arrangiamento (vedi Tower Jazz Composers Orchestra ed Unscientific Italians). E poi con la selezione di un ventaglio di talenti individuali già sperimentati individualmente e chiamati a cimentarsi con la disciplina d’orchestra: un mix di giovani e di veterani di consolidato mestiere, che include il nocciolo duro di Double Cut, uno dei gruppi stabili di Tracanna (altra astuzia…). Oltre al leader ed all’eminenza grigia, sul palco abbiamo visto comparire Massimiliano Milesi (Double Cut) al sax tenore, Federico Calcagno ai clarinetti e Gianluca Zanello al sax alto (compagni nei Dolphians), Paolo Malacarne alla tromba, Andrea Andreoli al trombone, Giulio Corini al basso e Filippo Sala alla batteria (anche questi ultimi due Double Cut). Una ‘big band’ in miniatura, ma che ha le stesse complessità di quelle grandi grazie alle molte spiccate individualità che comprende.

L’inserimento dell’ospite Jonathan Finlayson alla tromba (Five Elements di Steve Coleman, ensembles orchestrali di Henry Threadgill e molto altro) è stato felicemente risolto concedendogli un adeguato spazio di evidenza, ma non così dominante cone ci si poteva attendere: un primus inter pares, un compagno di strada insomma, che ha spesso apportato a Panorchestra una vena di pensoso lirismo in contrasto con la aggressività spigolosa e talvolta espressionistica della band.
Santimone ha fatto una saggia scelta: quella di predisporre arrangiamenti molto ‘serrati’ e compatti per le parti orchestrali d’assieme, impostate in funzione di stimolo e dialogo con i solisti, salvi rari momenti di più libera improvvisazione collettiva. Le parti solistiche sono state ben incastonate nel tessuto orchestrale ed hanno offerto belle occasioni ad un Tracanna travolgente soprattutto al soprano, ad un intenso e rovente Milesi, ad un concentrato ed efficace Calcagno (bella ed utile prova di umiltà questa sua gig orchestrale, un ulteriore indice di notevole maturità). Anche Santimone riesce a ritagliarsi un bello spazio per il suo pianismo nervoso e scattante, punteggiato da qualche occasionale cluster.
Molto vari ed eterogenei i materiali rimodellati dall’arrangiatore: da un brano che lambisce l’ethio-jazz che ha sedotto Tracanna in una tourneè africana di parecchi anni fa, ad un misterioso ‘Aca Mora’ (titolo “per soli bergamaschi DOC”, chiosa Tracanna…), ma personalmente mi è rimasto particolarmente impresso il sofisticato arrangiamento di una ‘lunare ballad’ di Zawinul, che ha messo alla prova Panorchestra sugli insidiosi tempi lenti densi di espressione, band ed arrangiatore promossi a pieni voti.
Nel carnet di Panorchestra per ora si profila un’ulteriore data a Brescia (co-sponsor del progetto in occasione dell’Anno della Cultura che gemella le due città) che vedrà come ospite un altro trombettista di notorietà internazionale, Steven Bernstein. Sarebbe però bello che l’esperienza di Panorchestra potesse consolidarsi nel tempo, consentendo alla formazione di rodarsi e di raggiungere gradualmente una maggiore scioltezza ed articolazione interna. Al momento non sono riuscito a trovare nemmeno una piccola clip che la riguardi……. un vero peccato, ricorro al surrogato qui sotto. ‘Stay Tuned’ per ulteriori cronache bergamasche. Milton56
Double Cut di Tracanna, il nocciolo duro di Panorchestra. I ‘canti mandriani’ bergamaschi hanno risuonato anche nel set di Panorchestra: un esordio bucolico che degenera in un western di Peckinpah, sono parole di Tracanna….