Una delle caratteristiche dei festival è quella di spingerti verso occasioni d’ascolto insolite. Non sono un forzato festivaliero, in genere mi concedo un paio di ascolti al giorno, è importante metabolizzarli; poi i gusti sono ormai assestati e si seleziona con cognizione di causa, difficile attendersi sorprese. Ma la prospettiva di una giornata vuota sino alla sera può indurre a fare qualche esperimento.
E qui entra in gioco l’affidamento che si fa sull’organizzazione, fiducia che sabato 25 è stata ben ripagata. Sapevo poco di Nik Bartsch, lo collocavo in quell’area di confine tra minimalismo e contemporaneo, un terreno recintato ben coltivato dalla ECM degli ultimi anni. Referenze che certo non mi entusiasmano, anche per una certa serialità e maniera che contraddistinguono questa musica.
Ma recentemente mi è capitato di ascoltare artisti ECM in ambito live, sorprendendomi a scoprirli molto diversi e notevolmente più interessanti di quanto non appaiano attraverso il filtro della produzione di Monaco di Baviera. E quindi eccomi ad arrampicarmi sulle possenti mura veneziane della Città Alta in una luminosa e cristallina mattinata di primavera alla ricerca del Teatro S.Andrea.
Arrivo e lo scopro coesistente con l’omonima chiesa, di cui doveva essere parte prima di esser trasformato in uno spazio teatrale. Entrando in sala, da subito l’impressione è quella di trovarsi in un luogo speciale: la platea singolarmente dà le spalle al palco ed orientata verso una sorta di abside in cui è collocato il pianoforte preparato per il concerto. Immediatamente sopra è sospeso un misterioso triangolo, le luci fanno il resto: un ambiente esoterico per una musica iniziatica scaturita e mirante ad uno stato di profonda meditazione.

Bergamo Jazz ha un vero talento per la scoperta di simili ambienti carichi di suggestione per i propri ‘concerti minori’: ricordo ancora la Sala della Porta di S.Agostino e l’Oratorio di S.Lupo. I luoghi hanno un’importanza fondamentale per musiche che si addentrano in territori poco battuti, come ha giustamente osservato a più riprese Maria Pia de Vito, traendone le dovute conseguenze.
Di solito le presentazioni della Direttrice Artistica sono state molto essenziali e centrate: questa volta mi ha fatto correre un brivido giù per la schiena parlando di minimalismo a proposito del pianista svizzero. Notoriamente lo scrivente è del tutto allergico alle infiltrazioni in campo jazzistico di questa corrente musicale, che ha peraltro addentellati in altri campi dell’arte e del pensiero.
Il concerto di Bartsch per fortuna è stato tutt’altro. Niente ripetitività ossessiva, niente rigidità schematica. invece abbiamo assistito ad un set che sicuramente aveva un fascino e un’impostazione quasi rituale. Sono tutt’altro che gratuite le credenziali di Bartsch come praticante della meditazione zen e di una sorta di trance il cui raggiungimento ispira la sua musica in modo evidente e con grande capacità di coinvolgimento del pubblico, che anche stavolta si è mostrato all’altezza di un ascolto quanto mai impegnativo.
Bartsch ha suonato in un’unica soluzione per quasi un’ora senza mai cadere in un momento di noia e di stasi: e già questo è un notevole punto a suo favore. Le sue ascendenze di percussionista si sono notate nel suo approccio totale al pianoforte di cui sono state sfruttate tutte le risorse sonore, sia quelle più ovvie sia quelle più recondite ed impensate.
Invece di far leva su lunghissime progressioni animate da microvariazioni al limite della percettibilità (marchio di fabbrica del minimalismo), la lunga suite di Bartsch ha avuto caratteri di grande varietà e soprattutto di spiccato contrasto. La sua sintassi era scandita da improvvisi e fulminanti interventi percussivi sullo strumento, rivolti non in modo più ovvio alla cordiera, ma all’intera struttura del pianoforte e in particolare al suo telaio metallico. Un equivalente musicale delle proverbiali bastonate con cui i maestri zen risvegliavano la vigilanza dei discepoli nelle lunghe sedute di meditazione: del resto la temperie della sessione era vistosamente ispirata a queste esperienze.
Sin dall’inizio si è percepito qualcosa di particolare nel suono, una ricchezza di sfumature ed una profondità insolita: si è appreso dopo che a Bartsch era stato affidato uno Steinway degli anni ‘20 che probabilmente nella sua secolare carriera per la prima volta vedeva manovre e interventi del genere messo in atto dal pianista svizzero: una nota di merito e di plauso a chi coraggiosamente ha messo a disposizione uno strumento così raro e prezioso, che ha fatto la sua parte nella riuscita e nella magia del set.
La sorprendente varietà timbrica generata dagli interventi percussivi e di manipolazione diretta delle corde ha generato delle secche transizioni attraverso atmosfere marcatamente diverse. La forte dialettica interna della musica ha conosciuto picchi e climax di intensità e dinamica veramente importanti, determinando dei momenti che mi viene solo da definire cataclismatici. In ciò si misura soprattutto la distanza del pianista da certe estetiche minimalistiche.
L’abilità di Bartsch nel generare delle autentiche ed improvvise epifanie sonore sul finire del concerto ha prodotto una piccola meraviglia: una frase secca e martellante, un’ostinato inconfondibile e per un minuto è apparso lui:

….. un cugino primo che jazzmen e jazzofili dovrebbero frequentare spesso.
Il set sì è concluso in modo abbastanza asciutto e secco, che solo dopo un significativo momento di sospensione ha riportato gli ascoltatori su di un piano di realtà quotidiana. Personalmente in quell’istante mi ha colto un flash che veniva da anni lontanissimi: l’ascolto in condizioni fortunose e disagiate come poche di un concerto in solo di Cecil Taylor. Come in quel precedente ormai remoto, anche nel caso della musica di Bartsch è apparsa chiara la irrinunziabile dimensione di esperienza fisica richiesta da alcune musiche, una caratteristica sempre più rara e difficile da trasmettere nelle condizioni odierne. Ragione di più per afferrare al volo esperienze intense come quelle della mattinata al S.Andrea, che ha già un suo posto nel mio piccolo album dei ricordi. Milton56
Notevole scenografia, ma non la baratterei mai con la magia del S.Andrea in cui la musica dominava allo stato puro
Nik Bartsch: un nome che non dimenticherò. Grazie per la bella mattinata (mi sembra di capire).
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