Il collega Pepe è andato a rimestare nelle braci del mio consumante amore per Ervin, ‘unsung hero’ in servizio permanente effettivo. Purtroppo non è solo il postumo ‘In Between’ ad essere una ‘traccia perduta’, lo stesso si può dire che di quasi tutta l’opera del fuoriclasse texano. Il quale corpus è prevalentemente apparso sotto le etichette Prestige, Savoy, Pacific e Candid, il che è come dire arabe fenici al giorno d’oggi.
Un paio di suoi album molto significativi sono reperibili su Bandcamp, dove il gruppo Concord periodicamente ripropone titoli di Prestige e delle sue etichette satelliti. Va tenuto d’occhio anche il programma di riedizioni dello stesso catalogo intrapreso dalla Craft Recordings , che nonostante una certa deriva audiofila sta conducendo un prezioso lavoro di conservazione e restauro di materiali cruciali per la storia del jazz degli anni 50/’60: speriamo che presto il povero Booker possa in qualche modo beneficiarne. Nell’attesa, il Grande Fratello Svedese offre una selezione pressoché completa dell’opera del texano: solo in virtù di questo cercheremo di perdonargli gli insulsi ‘dischi inventati’, le compilation con cui ha infestato anche la sua discografia.
Innanzitutto mi preme sottolineare che la collaborazione con Mingus (che molto si giovò della sua voce strumentale tagliente e del suo fraseggio impetuoso, senza di lui ‘Blues and Roots’ e ‘Mingus Ah Hum’ non sarebbero i capolavori che sono) è stata solo una fase di una carriera che, pur nella sua brevità, ha conosciuto momenti di smagliante luce propria.
Vediamo se riesco a contagiarvi con la passione per Booker…. Innanzitutto, si trattava di musicista tecnicamente ferratissimo, e capace di muoversi nelle situazioni più diverse e complesse. Il collega Pepe parla di un Booker ‘schiacciato tra Rollins ed Ayler’: beh, il primo è figura che guarda dall’alto quasi tutti i contemporanei (per tacere dei successori), il secondo avrà pure molti numeri sul piano espressivo, ma sotto il profilo dello stile e del mestiere a mio avviso incassa da Ervin un k.o. netto, e pure alla prima ripresa. Un esempio: Booker in azione come leader di un grande organico nel settembre 1967, l’unico altro solista al suo fianco è un certo Freddie Hubbard (coppia che meglio assortita non potrebbe essere), tra gli altri sessionmen di gran classe si nota un giovane Kenny Barron. Nota bene: la mia edizione elenca ben 7 takes di questa ‘L.A. in the Dark’, tre delle quali complete e pubblicate in seguito come ‘extra’. Quando si dice il perfezionismo….sentite che pulizia ed essenzialità:
L’album è ‘Booker’n’Brass’, da ultimo apparso da Blue Note, originariamente un Pacific Jazz
Nel jazz un’infallibile pietra di paragone rivelatrice del talento è la qualità delle collaborazioni, il riconoscimento che ti viene dalla comunità jazzistica. Che soprattutto all’epoca di Booker non era certo un giardino d’infanzia, bensì un’arena dura e spietatamente competitiva. Bene, Mal Waldron ed Eric Dolphy chiameranno lui per questa pietra miliare degli anni ’60:

In questo disco c’è uno dei miei 10 brani ‘da isola deserta’. Cercatelo e provate ad indovinare qual è……
Quando Ervin si metterà in proprio, troverà subito al suo fianco sidemen del calibro di Jaki Byard (eminenza grigia di Mingus….), Horace Parlan, Alan Dawson, ed occasionalmente persino un pezzo da ’90 come Dexter Gordon e l’idiosincratico Roy Haynes. Con risorse di questo livello il nostro mise in cantiere la serie dei ‘Books’ (notare il gioco di parole), a mio avviso l’apogeo della sua carriera ed uno dei corpus più intensi e riusciti del jazz anni ’60: ‘The Song Book’, ‘The Blues Book’, ‘The Freedom Book’ e ‘The Space Book’. Uno che pensava in grande, Booker, come si può vedere: già dai titoli si intravede la sua fisionomia da uomo di frontiera, uno che sa metabolizzare e rielaborare con originalità i convulsi stimoli dei tempi tumultuosi in cui visse. Provate ad ascoltare questo “I can’t get started”. ”Uno standard dalle mille versioni, anche un po’ consunto”, commenterà qualcuno. Appunto, dico io, vedete cosa riesce a cavarne Ervin….
Qui Booker gioca in casa, con il quartetto che lo ha accompagnato in gran parte dell’avventura dei ‘Books’. Questo potrebbe dar conto della sicurezza e del controllo con cui affronta una ipnotica e visionaria cavalcata di oltre 9 minuti, una vera eternità per il jazz di allora (ed anche per quello di oggi, se si considera la densità di idee e la compiutezza del loro sviluppo).
Ma la tempra di improvvisatore a lunga gittata di Ervin doveva generare un altro exploit memorabile. Sempre in compagnia dei fedelissimi Byard, Dawson e del bassista Reggie Workman, nel 1965 in uno studio di Monaco di Baviera (eh sì, Booker ha passato molto tempo in Europa) prendono forma i 19 minuti (!!) di ‘The Trance’. Una trance lucida, consequenziale, che ancora oggi conserva il fascino dell’azzardo. 19 minuti che non rimpiangerete, ve lo assicuro, cliccate sotto:
Da ‘Setting the Pace’, 1965. In un paio di brani appare anche Dexter Gordon(!). Questo lo trovate su Bandcamp. Chissà perché, ma mi piace pensare che sia stato registrato di notte….
E siamo a quella che i cugini yankee chiamano la ‘bottom line’. Un’insufficienza renale trascurata, forse nemmeno diagnosticata, si porta via Ervin a 40 anni appena compiuti: una sorte non infrequente nelle vite jazzistiche di una volta, dove la lotta per il palco lasciava poco spazio per altro, persino per la cura della persona. Ma questo ‘personaggio che non si vende’ (al contrario di altri ormai inflazionati) aveva lasciato un segno in chi lo aveva conosciuto. E nel 1980 Enja, una bella etichetta (alquanto sottovalutata anche lei), pubblica ‘Lament for Booker’, un album che oltre a comprendere un’epica performance live di Ervin a Berlino nel 1965, preserva questo intenso ricordo in parole e musica del suo vecchio compagno Horace Parlan. E’ del 1975, non sono stati in molti a creare un legame così duraturo e profondo nell’affollato e mutevole mondo del jazz. Ricordiamolo così anche noi. Milton56
L’ LP di questa clip è un po’ acciaccato, ma in fondo forse è meglio così….