C’era una volta al Ronnie Scott’s.

Sarà capitato a molti appassionati di passare una serata, o magari solo avere dato un’occhiata dall’esterno, al numero 47 di Frith Strett nel quartiere londinese di Soho. E’ la sede di uno dei più famosi jazz club di Londra, il Ronnie Scott’s, attivo fin dal 1959, quando fu fondato dall’omonimo sassofonista inglese insieme al collega Pete King, ed ancora oggi aperto sette giorni a settimana.

Scott, verso la fine degli anni ’40, era impiegato come musicista sulle navi da crociera che facevano tappa a New York: qui ebbe modo di conoscere il be bop ed essere influenzato da Charlie Parker, ricalcandone quindi le orme al ritorno in patria. Insieme all’attività di manager del club, ed in seguito anche di discografico, riuscì a sviluppare una discreta carriera come musicista, come membro della big band di Kenny Clark e Francy Boland e quindi alla guida di un suo otteto che includeva i giovani John Surman, Kenny Wheeler e Mike Carr. Nel 1981 fu insignito del titolo di Officer of the Order of the British Empire per la sua attività al servizio del jazz, ma forse il riconoscimento più apprezzato venne dalle parole di Charlie Mingus che lo defini un “boy closer to the negro blues feeling, like Zoot Sims”.

Per circa un settennio dalla sua fondazione, pianista stabile delle band ospiti al Ronnie Scott fu Stan Tracey, musicista profondamente innamorato di Powell, Ellington e Monk, che in quella veste riusciì ad incontrare e farsi apprezzare da alcuni musicisti americani di passaggio a Londra. Non da Stan Getz, però, che pubblicamente affermò l’incompetenza della backing band del locale, mandando Tracey su tutte le furie e perdendo così il pianista. La pensava diversamente Sonny Rollins, suo ammiratore al punto da convocarlo nelle sedute di registrazione della colonna sonora del film “Alfie ” la commedia di Lewis Gilbert con Michael Caine del 1966.

La carriera di Tracey, nonostante si estenda in un ampio arco temporale, non è proprio argomento di attualità: dopo gli inizi al club di Soho ed un periodo di relativa notorietà nell’ambito del jazz europeo, si registrano un periodo di crisi agli inizi dei settanta, superato grazie alla spinta ed all’energia della moglie, la frequentazione (poco convinta) con la nascente scena british free di Surman, Keith Tippet e quindi Evan Parker, la leadership di diverse formazioni, collaborazioni con musicisti americani come Ben Webster, Charlie Rouse e Sal Nistico, e la fondazione di una propria etichetta discografica, la Steam Records. Proprio alla Steam fu affidata, a metà anni ’70, la ristampa di ” Jazz Suite Inspired by Dylan Thomas’s “Under Milk Wood” il più conosciuto disco di Tracey e, ad oggi, uno dei più apprezzati di tutta la storia del jazz inglese, originariamente pubblicato nel 1965. Otto brani dai quali traspare tutto l’amore di Tracey per i propri ispiratori, con una vena monkiana particolarmente avvertibile (“Cockle crow”, “No good boyo” , “I lost my step in Nantucket”, “Llareggub“), un rilassato approccio alle ballads (“Under milk wood“) e la capacità, non comune fra i jazzisti, di lavorare con leggerezza ed ironia sui materiali tematici (“Pinpals“). Uno dei motivi centrali del disco risiede nel dialogo fra il pianoforte di Tracey ed il sassofono di Bobby Wellins, un musicista che si distacca dal modo di suonare travolgente e free in voga all’epoca fra molti colleghi, privilegiando invece la gestione dei silenzi ed i toni chiaro scuri. Determinante il suo intervento sul brano che nella raccolta di staglia su tutto il resto, ovvero “Starless and bible black” una frase di una poesia di Thomas che ispirerà anche anni dopo un famoso disco dei King Crimson. Qui le note del pianoforte evocano un clima plumbeo e malinconico, ed il respiro del sax, frammentato in piccole cellule melodiche, disegna un’ideale colonna sonora per un film in bianco e nero con i protagonisti ritratti su un marciapiede bagnato di pioggia.

Altro eroe del Ronnie Scott degli inizi, ed altro musicista di cui non si serbano oggi molti ricordi, Bobby Wellins, di origini scozzesi, conseguì negli anni sessanta, grazie al brano di Tracey, una certa notorietà negli ambienti del british jazz, per poi gradualmente scomparire dalle scene per problemi di salute. La sua carriera riprese nel 1977 quando mise su un quintetto con Pete Jacobsen alle tastiere, Adrian Kendon al basso e Spike Wells alla batteria, per proseguire fino agli inizi del nuovo millennio con diverse incisioni, alcune delle quali recuperano il vecchio amore ereditato da Tracey per la fusione fra jazz e letteratura. Il suo stile interpretativo, capace di fiammate improvvise come di scavi in profondità, può essere apprezzato in una raccolta recentemente pubblicata dall’etichetta Jazz in Britain che mette insieme i primi due lavori del quartetto, il live “Jubilation” registrato nel 1978 al Brighton Jazz Club di Kemp Town e l’album in studio “Dreams are free“, con un assortimento extra di standards di Ellington, Parker e Monk catturati dal vivo, nei quali il gruppo esprime una veemente capacità interpretativa ( da ascoltare la “Rhythm – A – Ning” al fulmicotone).

La raccolta, ricca di ottima musica che è un piacere riascoltare oggi, si intitola “What was happening” ed è una bella testimonianza di un periodo fertile e creativo del jazz britannico, nato e cresciuto fra le mura di quel locale di Soho che il suo fondatore definiva “proprio come una casa, sporco e pieno di estranei“.

Un video celebrativo di Wellins firmato da Tommy Smith fondatore della Scottish National Jazz Orchestra

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