DAVID MURRAY, “BLUES FOR MEMO”, UN DISCO CHE RESTA

E’ piaciuto anche ai ‘colleghi’ del New York Times, noi qualche mese fa ed ‘in una altra vita’, ne avevamo parlato cosi:

JAZZ & POETRY (… AND RAGE)
Miracoli dello streaming. Dopo tanti patetici ‘suggerimenti’ a vuoto finalmente l’intelligenza artificiale della Grande Discoteca Svedese mette a segno un punto a suo favore proponendomi “Blues for Memo” a nome di David Murray e del poeta Saul Williams. Oltre ad esser disponibile integralmente in streaming, è in uscita da Motema anche il Cd fisico.
Premessa indispensabile: David Murray è uno dei miei beniamini sin dagli albori della sua ormai lunga ed articolata carriera. Pur riconoscendo alcune ridondanze e sbandamenti nella sua vasta (troppo) produzione discografica, ogni volta che lo ho sentito suonare dal vivo ne sono uscito con la riconfermata convinzione che si tratta forse di una delle ultime figure carismatiche della musica afroamericana, che in altri tempi sarebbe senz’altro assurto al ruolo di leader caposcuola. Purtroppo così non è stato, sia per la diaspora eclettica che ha interessato la scena jazzistica, sia per la convinta ed esibita appartenenza di Murray ad una linea di discendenza da tempo minoritaria e quasi eretica, quella hawkinsiana/rollinsiana. Resta il fatto che ad ogni sua uscita, oltre a confermarsi strumentista e solista “in a class of his own”, cui bastano due note qualsiasi per farsi riconoscere, finalmente trovo una risposta nei fatti alla ricorrente, ossessiva domanda: “ma qual è l’essenza ultima, irrinunziabile, del jazz contemporaneo?”. Ecco, le varie bands di Murray esprimono appieno quello che i critici letterari chiamerebbero il “canone” di questa musica: già il trio con la rimpianta Geri Allen e Terry Lyne Carrington ne era un magnifico esempio, ma con l’esteso, complesso e composito organico messo in campo per questo lavoro siamo andati ancora al di là, se possibile.
David Murray leader al sax tenore e clarinetto basso, Craig Harris al trombone, Orrin Evans al piano acustico, Jason Moran al fender rhodes, Jaribu Shaid al basso, Nasheet Waits alla batteria, Mingus (!) Murray alla chitarra, il musicista turco Aytac Dogan al kanun (una sorta di cetra, tutt’altro che un pizzico di ‘spezie etniche’…). Il primo commento che mi viene in mente è: “nessun altro?”, ma poi mi viene da notare che oltre al ritorno di vecchi e sperimentati compagni di Murray (tutti in forma strepitosa, per il travolgente Craig Harris non ci sono parole), come d’incanto appaiono per la prima volta uomini che, come Orrin Evans e Jason Moran, peraltro sembra che non possano esser altrove che qui. Ennesima dimostrazione del fatto che, ad onta dei casi della vita, il jazzmen purosangue sa sempre “riconoscere i suoi santi” con rabdomantica sicurezza. Mentre Moran dà un’ennesima prova della sua prodigiosa, creativa versatilità, il corposo contributo – anche solistico – di Evans lo fa sembrare molto più a casa qui, tra gli “arrabbiati con stile” di Murray, che tra i postmoderni Bad Plus; ovviamente è opinione personale, ne riparliamo una volta ascoltato seriamente il disco del trio (ora a sua guida) che sta uscendo in questi giorni.
Ho volutamente lasciato da parte l’altro polo di questo gruppo, le voci: quella protagonista del poeta Saul Williams ed il canto di Pervis Evans. Eh sì, ci troviamo di fronte ad una manifestazione di quel filone che riemerge carsicamente (almeno dal nostro punto di vista provinciale) nella musica afroamericana: il “jazz and poetry”. D’istinto la memoria corre ad i più celebri esempi degli anni ’50; in cui questa forma a cavallo tra musica e letteratura diede voce a tanti esponenti della Beat Generation (pressocchè esclusivamente bianchi), consentendogli di saldare in parte il loro debito stilistico con il jazz, e soprattutto con il bebop. Senza addentrarci nella questione delle remote radici di questa tradizione (che probabilmente risalgono ai primordi della musica afroamericana), va ricordato che essa periodicamente riemerge visibilmente: ricordo un bel disco di Eric Mingus (sì, proprio il figlio di Charles, anche qui notare il nome di battesimo…) che all’inizio del millennio mi sedusse non poco. E’ notizia dei nostri giorni quella di una analoga prova ad opera della instancabile Nicole Mitchell, che mette a disposizione del poeta Haki R. Madhubuti i suoi talenti di compositrice ed arrangiatrice, offrendogli un arazzo sonoro bruciante ed emozionante quanto questo.
Mi rendo conto che il ‘genere’ di cui stiamo parlando potrebbe ispirare qualche diffidenza in appassionati di lungo corso, che possono avere qualche termine di paragone: mi sento di dire che Saul Williams ha dalla sua una asciutta concisione ed efficacia che per esempio mancava all’ultimo Amiri Baraka/LeRoi Jones (che talvolta peccava di una certa aulicità ed enfasi accademica). Parimenti è lontano il modello di un certa parallela giustapposizione tra parole e musica, evidente negli esperimenti degli anni ’50: qui il rapporto tra poesia e musica è mobilmente dialettico, a volte alla lirica compostezza di Saul Williams fa da controcanto una ritmica tesa ed incalzante che carica di tensione le sue parole. In altri momenti, viceversa, alla febbrile concitazione del poeta e delle voci risponde una olimpica, moderna e composta classicità propria soprattutto degli interventi solistici di Murray, mentre il limpido ed incisivo pianismo di Orrin Evans conosce qualche punta di avventurosa dissonanza. A sua volta, l’incalzare della parola che insegue il ritmo febbrile della musica ci dà conto dell’inscindibile discendenza del miglior rap (che difficilmente abbiamo avuto modo di ascoltare e comprendere) dalla grande tradizione musicale afroamericana, come testimonia in particolare “Obe”.

La sorprendente “Citizens” è poi un ulteriore memento del fatale, predestinato incontro di Hendrix con il jazz. In questo disco che è un mondo non manca neppure il momento di fragile, ma contagiosa grazia di “Deep in me”.
La necessità e l’urgenza espressiva di questa musica, la sua rabbia silenziosa sublimata in stile e bellezza purtroppo impongono un dazio a noi comuni ascoltatori europei: nonostante la cristallina dizione di Saul Williams, risulta purtroppo difficile afferrare con continuità il testo delle belle liriche, che ci parlano della silenziosa guerra civile che serpeggia nelle strade d’America, dei paesaggi desolati ed abbandonati della Rust Belt che ha rabbiosamente rivendicato il suo diritto a non esser dimenticata creando una scena pubblica degna di un romanzo di Philip K. Dick. Purtroppo nemmeno l‘album del cd fisico riporta i testi, anche in questo l’America si rivela sempre più isola.
Quando vedrete scorrere sul video le immagini – spesso enigmatiche ed impenetrabili – dell’ennesima Columbine o della prossima Ferguson, lasciate riemergere in voi questa musica: come a suo tempo quella del vibrante “Attica Blues” di Shepp, è lei che misura veramente la febbre d’America. Che è alta, molto alta.

A volte, a distanza di tempo e di nuovi ascolti, i nostri giudizi sulla musica spesso cambiano, si evolvono: in questo caso confermo anche le virgole di quel che ho scritto mesi fa….. Milton56

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