Dischi volanti….

I ‘dischi caldi’ e quelli ‘roventi’ li abbiamo già alle spalle. Ora è la volta di quelli ‘volanti’, cioè di quelli che stanno per raggiungerci.
Dopo il gran momento dei trombettisti, ora a dominare la scena sono i pianisti, nelle più varie combinazioni d’organico.

 

Consueta grafica minimalista, ma fascinosa…

Come? Cominciamo un elenco di novità con un disco che ci porta musiche del 1999, sia pur inedite? Ebbene sì, perché parliamo di Paul Bley, un eterno contemporaneo nonostante il fatto che ci abbia lasciato qualche anno fa. “When will the Blues  leave” è un live registrato a Lugano (che Dio benedica Radio Svizzera Italiana per la sua intensa attività concertistica, di gran livello), che accanto a Bley vede Gary Peacock al basso e Paul Motian alla batteria, un trio che è riemerso sulle scene carsicamente con intervalli di decenni. Già questo è motivo di grande interesse, ma…… non sono di quelli che al primo ascolto di un disco estraggono la pistola Dymo, punzonano l’etichetta classificatoria e ripongono nell’appropriata teca, con lo stesso livello di coinvolgimento di un entomologo alle prese con una collezione di insetti in formalina. Dico solo che dopo un paio di rapidi ascolti ho già aperto l’ideale taccuino in cui annoto i dischi candidati ad entrare nella solita cinquina di fine anno. Musica limpida pur nella sua complessità che non va a scapito di una piana leggibilità; momenti di intenso, ma contenuto lirismo, avventura a iosa ad ogni giro di frase. Sconsigliato ai bassisti in formazione: ascoltare questo Peacock stroncherebbe sul nascere molte vocazioni. Chiudo dicendo che per un album così all’anno (l’ultimo  era ‘Far from Over” del Vijay Iyer Sextet) sono disposto a perdonare molte cose ad ECM.

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Il catalogo PI Recordings è un’edizione d’arte….

PI Recordings è un’altra etichetta di forte fisionomia, che, nonostante le piccole dimensioni, segue una sua rigorosa politica di diffusione che concede pochissimo al mondo dello streaming. Ad onta di questo, può però vantare già ora un catalogo interessantissimo, con un parterre di musicisti di prim’ordine che si affidano a lei. A fianco di Steve Coleman, di Tishawn Sorey, di Steve Lehman, di Liberty Ellman, la piccola label ha sempre scommesso molto sul pianista e tastierista Matt Mitchell, siamo al quarto suo album pubblicato, se non sbaglio. ‘Phalanx Ambassadors’ vede accanto a Mitchell al piano, al Mellotron ed al Prophet 6 un insolito organico con Miles Okazaki alle chitarre acustiche ed elettriche (ha più volte militato negli ultimi gruppi di Steve Coleman), ed un trio femminile formato da Patricia Brennan al vibrafono ed alla marimba, Kim Cass al basso acustico ed elettrico e Kate Gentile alla batteria e percussioni. Anche qui una fugace impressione: siamo lontani dalle trasparenze e dagli orizzonti aperti del trio di Bley, incombono invece paesaggi sonori intricati e scuri, che hanno la durezza e l’asprezza del nostro oggi, rielaborata però con sofisticata creatività e con esiti molto stimolanti. Del resto QUI  potrete farvene un’idea di prima mano, con il brano di apertura del disco messo a disposizione da PI Recordings su Bandcamp. A mio avviso Mitchell è musicista da seguire con molta attenzione: del resto la pensano così anche anche suoi colleghi come Tim Berne, John Hollenbeck ed anche il nostro Claudio Fasoli, che l’hanno voluto al loro fianco in diverse occasioni

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Anche qui non difetta la creatività…..

Che dire di Franco D’Andrea, che non si confonda con le inflazionate banalità di circostanza? Ad esempio che le sue apparizioni in concerto non sono affatto inflazionate, tutt’altro….. Dedico a promoters e direttori artistici questa piccola citazione di un recensore dell’All Music.com americana, gente che si macina decine di ascolti al mese delle musiche più disparate: “…this gorgeously recorded collection of five CDs offers more than a passing glimpse at one of the giants of 20th century jazz piano (…). If D’Andrea resided in the United States, he’d no doubt be known as one of the greats of jazz” . Noi che ce lo abbiamo in casa, invece, non riusciamo a sentirlo, si ringrazia sentitamente. Per fortuna il nostro ci compensa con una produzione discografica che ha il passo costante ed inesorabile di un maratoneta. Anche ‘A Light Day’ è stato registrato ‘in esilio’ a Roma, come di consueto dall’etichetta del Parco della Musica (romani, tenetevelo stretto…..un’isola di civiltà). Si tratta di un album doppio di piano solo. A qualcuno che senza parere abbozza già un passetto indietro dico solo questo, anche qui alla luce di qualche ‘assaggio’: è vero, la dimensione del piano solo è impegnativa, in passato è stata talvolta sfruttata per passerelle di ego debordanti e con esiti velleitari, ma non è questo il caso. Il lavoro è composto da quindici pezzi che hanno la dimensione della miniatura (mediamente tra i tre ed i 6 minuti, raramente si superano i 5), accanto a qualche titolo esoterico compaiono come di consueto i ‘Tiger Rag’, i ‘Saint Loius Blues’, gli ‘Original Dixieland One Step’ che ci ricordano che D’Andrea, oltre ad esser senza dubbio un jazzman purosangue ‘senza se e senza ma’ (una rarità alle nostre latitudini), è senz’altro il più colto e consapevole del passato che lo ha generato. Un ultimo viatico: musica densa da par suo, ma anche molto brillante e contrastata, non fatevi intimidire…. Milton56

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