Non si può dire che Chet non abbia conosciuto l’Italia da capo… a fondo
“Ogni promessa è debito”, ed eccomi a parlarvi di Chet Baker, partendo da due diversi spunti. Quel filo di riluttanza che giustamente si intravede nelle mie parole è dovuto ad una certa diffidenza per il modo e le forma in cui, specialmente da noi in Italia, è cresciuto un piccolo culto intorno a questo sfortunato musicista: mi sbaglierò, ma sotto sotto ci vedo una certa inclinazione verso un’estetica un po’ decadente e maudit che soprattutto alle nostre latitudini non ha giovato granchè alla ricezione del jazz (e comunque ha interferito non poco in una serena ed obiettiva ponderazione dei valori estetici e musicali in campo). Pensieri da gufo, comunque….
Ma tant’è, con Chet siamo di fronte ad una delle tante ‘vite da romanzo’ che popolano la storia del jazz, ed in questo caso molti capitoli sono stati scritti anche nel nostro paese, con cui Baker intrattenne un rapporto complesso.
Ed è proprio a queste stagioni italiane di Baker che il documentarista Nello Correale si è dedicato, realizzando il film “Chet is back, Chet Baker in Italia”, prodotto da RAI Cinema: in questo caso abbiamo quindi qualche possibilità di vederlo, anche se si dovranno rizzare bene le antenne per intercettarlo tempestivamente, vista la nonchalance con cui Mamma RAI tratta tutto quello che ha che fare con il jazz.
Innanzitutto, va dato atto a Correale di un notevole coraggio: è inevitabile infatti che il pensiero corra ad un altro ‘biopic’, lo splendido ‘Let’s get Lost’, firmato negli anni ’80 da Bruce Weber, che da fotografo di moda riusci ad impartire una sorprendente lezione di stile a registi ben più navigati di lui
L’audacia di Correale risalta ancora di più alla luce del fatto che le modeste risorse di produzione a sua disposizione in sostanza non gli hanno consentito un accesso diretto alle musiche di Chet per un loro naturale inserimento nel film: la musica nei film costa, e tanto anche, quando si tratta di quelle di una star, sia pure suo postuma e suo malgrado come Chet. Questa è la triste verità che è emersa in un breve dibattitto tra il regista ed il direttore artistico di JazzMi Linzi, seguito alla proiezione in anteprima, e dà conto dello scarso sviluppo del filone del documentario musicale nella nostra melodiosissima Italia.
Ma la necessità (e la scarsità) aguzza l’ingegno, ed anche Correale, come tanti suoi colleghi in passato, trova il modo di aggirare l’ostacolo: la musica di Chet rivivrà nelle parole e nelle note dei tanti jazzmen italiani che lo hanno accompagnato e spesso sono cresciuti alla sua ombra. Difficile però definire un maestro un Chet che rifuggiva dall’esercizio metodico e sistematico sullo strumento ed aveva in uggia parti scritte e musica progettata a tavolino. Al di là delle innate doti musicali di Baker, tuttavia sono molti i suoi colleghi italiani a sostenere l’efficacia di questo approccio centrato sull’head arrangment, soprattutto ai fini del raggiungimento di una buona intesa di gruppo ed anche sotto il profilo dell’apprendimento dei temi. Forse l’affidavit più inatteso ed autorevole in questo senso ci arriva da Enrico Pierannunzi. Suona quindi ancora più beffardo e crudele il destino che gli impose di reinventare da zero una tecnica trombettistica ‘ad personam’ dopo la tremenda aggressione che gli costò la perdita di buona parte dei denti, forse uno sfregio deliberatamente calcolato per stroncare la sua carriera di musicista: il parallelo con la terribile punizione inflitta al campione di biliardo ‘Eddie Lo Svelto’ Newman ne ‘Lo Spaccone’ di Rossen viene quasi automatico.
Se ti fai coinvolgere da ‘polli’ maneschi, l’irresistibile gusto del ‘bel gioco’ può esser un grande rischio
L’aneddotica sul ‘disadattamento pratico’ di Baker ovviamente si spreca, così come quella sulle sue impennate di eccentricità, come quella di improvvisare un concerto per le strade della Roma anni ’80 come un busker qualsiasi. Quasi a contrasto con questa levità un po’ folle, però, molti testimoni ricordano la sua attenta cura a tenere rigidamente al di fuori dal ‘lato oscuro’ della sua vita i tanti che gli offrirono sostegno e rifugio in ambiti sereni e protetti, lontani dalle rischiose peripezie che sempre lo accompagnarono e da cui mai riuscì a districarsi.
1961, a Lucca (in albergo, per fortuna)
Nell’Italia ancora un po’ rustica e naif della fine dei ’50 e dell’inizio dei ’60 Baker raccolse la sua consueta dose di scandali e disavventure giudiziarie, amplficati dalla segreta fascinazione per questo archetipo di ‘bello e dannato’, che sembrava fatto apposta per turbare il bigottismo benpensante del nostro lungo dopoguerra. Tuttavia, quello di Chet con la giustizia italiana fu un’impatto in qualche modo attutito ed ammorbidito da una certa paternalistica indulgenza cattolica verso l’ ‘artista peccatore’: difficile concepire negli States il figlio musicofilo del direttore del carcere che, dopo aver organizzato sotto la finestra della cella di Chet piccoli concerti di jazzmen dilettanti (allora, poi alcuni diventeranno il bel noto Quartetto di Lucca), convince il padre a consentire al famoso detenuto la possibilità di studiare ed esercitarsi allo strumento nel bel mezzo dell’austera prigione di Lucca.
Chi riconosce Giovanni Tommaso?
A proposito di questo ‘primo tempo’ di Chet con l’Italia, mi sarei aspettato qualcosa in più in termini di riscoperta di filmati d’epoca, che non avrebbero dovuto mancare visto il clamore scandalistico che circondò la prima calata di Baker nella penisola: se nonostante la cura e la tenacia di Correale non è emerso di più, c’è da cominciare a pensare che tante ‘schegge’ che la RAI Tre di Guglielmi ci fece intravvedere in una breve stagione nel frattempo siano andate perdute o risultino comunque irraggiungibili nel caos insondabile di archivi non curati. Inutile sparare un’altra volta sulla Croce Rossa, teniamoci stretti i pochissimi reperti come quelli che vedrete in coda all’articolo, dove si potrà constatare che il musicista Baker, pur nomade senza radici, è stato molto più fortunato dell’uomo, come testimoniano i sidemen di prim’ordine che lo accompagnano.
Ma se la celluloide scarseggia, altrettanto non si può dire del vinile. Qualche settimana fa l’amerciana Craft Recordings, già notata per altre operazioni analoghe di recupero organico, ha presentato un box di ben cinque LP (solite scelte un po’ elitarie e ‘di tendenza’, ma è vagamente promessa ‘sine die’ un’edizione in digitale…) che replicano i quattro album che Baker pubblicò tra il 1958 ed il 1959 per la Riverside. Una liaison breve, avviata all’insegna della baruffa: Orrin Keepnews, nume tutelare dell’etichetta, prima ebbe da obiettare sullo stesso ingaggio di Baker ad opera del suo socio (soliti attriti New York / West Coast…. tutt’altro che una leggenda) e poi ‘passò la mano’ rifiutandosi di produrre ‘Chet Baker sings’, in cui il californiano posava la tromba per esibirsi con la sua sola, peculiare vocalità. Sarà stato forse per ripicca e gusto della provocazione che nelle successive sessioni strumentali Keepnews circondò Chet di boppers ed hard boppers dei più puri e duri come Al Haig, Philly Jo Jones, Johnny Griffin e Paul Chambers, generando un’insolito contrasto con la più eterea immagine del trombettista della West Coast. Che concluderà il suo breve, ma intrigante flirt con Riverside con un match ben più ‘casalingo’ in compagnia di Bill Evans, Kenny Burrell, Pepper Adams ed Hubert Laws. Il quinto LP è il consueto ‘bonus’ fitto di inediti, alternate takes etc. Per i fedeli bakeriani più disposti verso l’eresia dettagli QUI
Buona nostalgia… Milton56
Chet Baker, Torino 1958, c’è anche Lars Gullin…
Roma , 1956. Forse al piano Francy Boland