Ogni musica finisce per diventare musica classica. Leggendo le storie degli altri generi ho spesso una curiosa sensazione di dèjà vu. La storia del jazz, ad esempio, sembra ricapitolare quella della classica ad alta velocità.
Prima il periodo della rivolta giovanile: Satchmo e Duke, Bix e Jelly Roll insegnano a una generazione a perdersi nella musica. Poi l’era dei fasti borghesi: le big band d’alta classe sono l’equivalente dell’orchestra romantica. Fase terza: gli artisti si ribellano all’immagine borghese, facendo eco alla rivoluzione modernista nella classica, a volte con citazioni dirette (Charlie Parker inserisce le note d’apertura della “Sagra della Primavera” in “Salt Peanuts”).
Fase quarta: il Free jazz segna il punto in cui i precursori perdono il contatto con le masse e diventano un’avanguardia indipendente. Fase quinta: un periodo di riconsolidamento. Il tentativo di Wynton Marsalis (ed altri) di lanciare un revival del jazz tradizionale corrisponde alla musica neoromantica di molti compositori del tardo XX secolo. Tale sforzo giunge però troppo tardi per riportare l’arte al centro della scena musicale popolare.
La medesima evoluzione si fa strada furtivamente nel rock. Cos’erano i miei coltissimi amici punk se non dei modernisti della Fase Terza, che si ribellavano al romanticismo elefantiaco del rock da stadio della Fase Seconda? Nei primi anni del nuovo secolo, in quel che resta del rock ha assunto una notevole importanza il neoclassiciscmo della Fase Quinta. Gli Strokes, gli Hives, i Vines, Stills e White Stripes, così come vari altri gruppi, si sono rifatti alla purezza perduta degli anni sessanta o settanta. Molti hanno utilizzato vecchi amplificatori, vecchi mixer. Un rocker pare abbia detto: “Sono deciso a non utilizzare nulla che non abbia già sentito.” Un disco dei White Stripes riportava questo avviso luddista: “Nessun computer è stato utilizzato durante la registrazione, il missaggio e il mastering di questo disco.”
L’autentica musica classica viene così lasciata in uno stimolante limbo. Ha l’occasione di liberarsi dagli stereotipi sociali che attualmente la paralizzano. Non è più l’unica forma costretta a portare il fardello del passato. Inoltre, ha il vantaggio di poter sopportare una costante reinterpretazione, rinnovandosi ad ogni ripetizione.
(Alex Ross 2010, Senti Questo)
Oggi proponiamo questa breve considerazione estrapolata da un saggio uscito alcuni anni fa di uno dei più acuti critici musicali tout court. Un illuminante schema/gioco che fa riflettere sulla circolarità delle espressioni artistiche (si potrebbe aprire uno schemino anche in campo letterario e pittorico) e su come appaiono distorte certe letture legate a visioni eternamente progressive delle musiche che bazzichiamo. La lettura dei saggi di Alex Ross, oltre ad essere agevole e stimolante, è esercizio di grande utilità per gettare un’occhio a 360° sull’andazzo generale, il suo modo di fare divulgazione aggirandosi famelico tra i generi, partendo sempre dalla “classica” (termine che detesta) ma senza particolari distinzioni di censo, ci appare semplicemente come aria fresca in mezzo a miasmi ristagnanti, ed a chi mastica l’inglese suggeriamo caldamente di tenere d’occhio anche la sua attività sul New Yorker, oltre al ricchissimo blog https://www.therestisnoise.com/ in cui integra con una ridda di esempi musicali il contenuto dei testi. Per dirne una, non è passato molto tempo dalla sua personale celebrazione dell’assai strombazzato 50esimo compleanno ECM , poche righe di ammirevole pregnanza, in cui non manda a dire anche quel che in moltissimi pensano (“L’estetica dal design austero dell’etichetta – lettere maiuscole, fotografie in bianco e nero, note sparse – era coerente al punto d’apparire un auto-parodia. Nel 1999, e dintorni, nessun supporto stereo sofisticato poteva dirsi completo senza che vi fosse un CD ECM che mostrasse, per dire, un’immagine di un muro di pietra crollato ” […]).
Oggi vogliamo però chiudere la nostra cartolina domenicale con alcune considerazioni sul cromatismo blues, ancora tratte da “Senti Questo”. Come necessaria premessa all’estratto proponiamo il video in cui Alex Ross illustra come una comune linea di basso, quattro note discendenti, un vero e proprio “lamento”, faccia capolino nei secoli attraverso le più disparate opere, dalle ciaccone spagnole/latine al Bob Dylan di “Simple Twist Of Fate” passando dagli ostinati di Monteverdi a tonnellate di Blues (ad illustrare il tutto ci sono Ethan Iverson al piano, il mezzo-soprano Rebecca Ringle e il chitarrista Tyondai Braxton)
[…] Le origini di questo riff sono oscure. Pare abbia profonde radici nella musica nera, che attraverso il ragtime affondano nel repertorio, poveramente documentato, della canzone afroamericana del XX secolo. Potrebbe persino essere collegato alle scivolose linee cromatiche che sono state registrate nelle salmodie degli Ewe e degli Yoruba nell’Africa occidentale. Anche se contiene la classica figurazione della scala del diavolo, non ha rapporti evidenti con l’ostinato dei lamenti di età precedenti; è un elemento decorativo, non una linea di basso. E crea una diversa atmosfera, conformemente alla complessità emotiva della forma blues. Un blues è sensuale, smaliziato, duro; racchiude sempre la forza di risollevarsi, pur riconoscendo la potenza del fato. Il gesto del lamento annulla se stesso e genera il proprio opposto. E’ questo il significato implicito del pioneristico pezzo di Duke Ellington “Reminiscing in Tempo“, una fantasia jazz di tredici minuti sospinta da un breve ostinato cromatico. Fu scritta in seguito alla morte della madre del compositore, ma tiene a bada il dolore, concludendosi in un umore finemente brioso. L’ostinato arrancante diventa un basso che cammina e danza.
….e Buona Domenica da Tracce di Jazz!