WALLACE RONEY, THE ‘SHADOW MAN’?

Montreux, agosto 1991. Sul palco-vetrina del noto festival svizzero prende corpo un evento unico sotto molti profili: Miles Davis si ripresenta in compagnia di una big band condotta da quella consumata volpe dell’arrangiamento di gran classe che è Quincy Jones. Data la sede ed il contesto ambientale, il concerto è fondato su di un programma molto preciso e strutturato, che annovera molti classici davisiani, la maggioranza dei quali riposavano da decenni nelle custodie dei dischi: prodigio mirabile per “ l’uomo che non si è mai voltato indietro”. Ma forse anche lui capisce che si tratta del suo ultimo giro di valzer: il suo organismo gli presenta il conto di una vita sempre vissuta al massimo, ma anche bersagliata da dure prove della fortuna.

Ed allora ecco l’ultima delle sorprese, la più grande: a fianco dei reduci della big band di Gil Evans ed a quelli dell’orchestra di George Gruntz, c’è un altro solista di tromba. E’ il trentenne Wallace Roney. Conoscendo Davis, la tagliente durezza con cui ha giudicato e spesso congedato colleghi di grande statura tecnica ed artistica, si tratta di cosa che ha dell’incredibile, soprattutto se si pensa che a Roney è affidato il compito di ‘sostenere’ ed integrare ampiamente la vacillante e laconica voce strumentale di un Miles già duramente provato.

Come si seppe dopo, dietro a questa epocale investitura sul campo c’era anche un rapporto umano molto solido e profondo, altro miracolo considerando la problematica personalità sociale di Davis, soprattutto negli ultimi anni. Roney già prima aveva dato prova di esser penetrato in profondità nel mondo di Miles, e la cosa era stata riconosciuta anche da veterani del mitico Quintetto degli anni ’60, come Herbie Hancock, Tony Williams, Wayne Shorter che non avevano esitato a chiamarlo a loro fianco per far rivivere per un attimo la musica condivisa con il loro ex leader carismatico.

Siamo nel 1992…. Wallace ha 32 anni. Intorno a lui altri 30 anni…. di storia del jazz

Questo consolidato e clamoroso exploit è stato un bene od un male per il Roney già allora musicista maturo? Altri grandi jazzisti hanno deliberatamente ed ostentatamente continuato a tracciare il solco iniziato dal loro grande ispiratore, rimanendovi legati per tutta la loro carriera: possiamo pure spendere la parola ‘culto’, alludendo ad un’identificazione che andava anche molto al di la del piano strettamente musicale ed artistico. E’ il caso di Sonny Stitt con Charlie Parker, e forse in minor misura anche di Phil Woods, anche se arrivò a sposarsi con la vedova di Parker.

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A Tribute to Jack Johnson’: un ‘diretto’ che arriva ancora a segno….. 

Qualcuno pensa che a Roney non abbia giovato l’esser stato una sorta di ‘uomo-ombra’ di Davis. A parte che esser l’ombra di Miles, anche solo sul piano tecnico-strumentale, era impresa non da poco, va considerato che l’eredità più inquietante ed affascinante del trombettista di Dalton viene appunto dal suo lato oscuro. Se Miles ha incarnato un modello di comportamento, se è stato un’uomo-guida carismatico, se ha inventato e diffuso un modo diverso di fare musica, va anche constatato che l’eredità del Davis strumentista, ma anche del leader, è rimasta in massima parte giacente e non reclamata. Tracce appena lasciate da Davis su terreni inesplorati non sono certo diventate affollate autostrade del gusto e della pratica musicale. Questo fa sì che opere della svolta di rottura della fine degli anni ’60 suonino ancora per certi versi futuribili e tuttora non compiutamente sviluppate: non solo l’odiosamato e senz’altro largamente frainteso ‘Bitches Brew’, ma anche l’impressionante ‘Jack Johnson’ animato da un’energia e capace di un’impatto che ancor oggi appaiono difficilmente eguagliati. Nemmeno il Davis ‘fauve’ e brutalista del ritorno dopo il 1981 si è curato di costruire un compiuto monumento a se stesso, come hanno fatto altri con molto profitto: è rimasto uomo ‘divisivo’, di rottura (l’unanimità è la spia del luogo comune e della banalità), un’esploratore che ha avuto appena il tempo di tracciare un segnale sulla sabbia, più che di disegnare una mappa dei nuovi mondi sonori che aveva intravisto all’orizzonte.

 

‘Musica di papà’? Non direi proprio, provate a suonarla su qualche transatlantico da 15 piani… E’ il 2007, c’è ancora Geri Allen ed il veterano davisiano Robert Irving III

Roney per congiuntura anagrafica avrebbe ben potuto coltivare e promuovere la sua individualità e la sua visibilità su di una scena più pacificata ed assestata, come hanno fatto con cura molti altri ‘young lions’ così affermatisi negli anni ’80. La maggior parte di loro sono ancora figure incombenti della scena attuale, ne costituiscono il riconosciuto maistream.

 

Dal naufragio Muse qualcosa è sopravvisuto: qui c’è Mulgrew Miller al piano; Charnett Moffett al basso, Tony Williams alla batteria. Wallace ha 26 anni e milita ancora nel gruppo di Williams. Il controverso ‘Blue in Green’ è una pietra di paragone…

Viceversa Roney si è silenziosamente dedicato a metabolizzare i tratti più peculiari ed inconfondibili del Davis trombettista: in barba a quelli che hanno sempre guardato con una certa sufficienza la tecnica strumentale di Miles, quasi solo Roney ha afferrato il suo magico ‘suono senza attacco’, quello che non inizia, quello che è puramente e semplicemente , anche quando noi non lo ascoltiamo. Ma ha anche sviluppato una sua diversa vena interpretativa, un lirismo più filtrato e distaccato, quasi contemplativo. La raccolta ed a volte enigmatica laconicità davisiana lascia il posto ad una maggiore fluidità discorsiva, una narratività che si sviluppa in uno spazio più luminoso degli incombenti notturni tipici del miglior Miles.

C’è una prova del nove di tutto cio’. Se ti dedichi al calligrafismo nostalgico facilmente ti troverai vicino esperti e smaliziati professionisti, non veri talenti come sono stati Mulgrew Miller e Geri Allen, che per molto tempo hanno affiancato Wallace al piano. Se coltivi una rendita di posizione artistica, generalmente scegli astutamente il tuo editore: invece una porzione notevole del lavoro di Roney si è inabissata nell’oscurità grazie all’eclissi del raffinato catalogo Muse, che ne raccoglieva molta parte. Per fortuna successivamente l’altrettanto sofisticata e caratterizzata HighNote sì è rivelata un approdo più solido e duraturo.

‘Time after time’, una canzone passata da un hit di Cindy Lauper al laboratorio alchemico di Miles

Viviamo in tempi in cui spesso ogni sera si inizia a scrivere la prima pagina di una storia che fatalmente, direi quasi programmaticamente, si esaurisce prima ancora di riempire il foglio. Che quasi sistematicamente plana nel cestino, senza approdare a nessun risultato estetico compiuto. E domani è un altro ‘incipit’, anzi, scusino il ‘latinorum’, un altro Progetto. Roney invece è uno che ha scrutato gli abbozzi talora intricati, talora al limite dell’indecifrabile, di qualcuno che non ha avuto abbastanza tempo per tutto quello che aveva da dire. Starò invecchiando, ma da qualche tempo sento più il bisogno di qualcuno che cerchi di dare compiuto sviluppo ad un grande romanzo abbozzato, che non di chi con un briciolo di calcolata prestidigitazione impagina un libro di quinterni sparsi che si interrompe a singhiozzo all’infinito come il caleidoscopico assemblaggio di refusi di legatoria che riempe “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Ma almeno lì il frankestein editoriale valeva a far incontrare il Lettore e la Lettrice, facendogli scrivere la loro storia.

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Ma dov’è il Romanzo? Ma è quello dei due lettori….

E visto che abbiamo imboccato il Viale del Tramonto della Ripetizione, andiamo sino in fondo. Tempo fa mi capitò di scrivere quattro righe su ‘Il duro lavoro del jazzman’. Con l’usuale faccia tosta attingevo a piene mani dalla ‘Autobiografia’ di Davis, particolarmente alla sua rivelazione della cocaina come puntello indispensabile a reggere ai cicli forsennati dei set a ripetizione nei night club degli anni ’50 ed anche ’60. La ‘scimmia’ di allora è lontana (forse..), ma anche una vita di camere d’albergo sempre diverse, di aereoplani ed aereoporti caotici, di jet lag a ripetizione che cancellano il giorno e la notte non sono affatto da meno. La classica ruota del criceto indispensabile per rimpiazzare gli  svaniti cachet discografici che consentivano ai ‘padri artistici’ dei jazzmen di oggi almeno qualche pausa di respiro e riflessione. Poco dopo il collega che segue la pagina Facebook di Tracce mi mandava l’immagine di un commento sotto il post che riportava il link del mio pezzo. Commento laconico, un piccolo cuore rosso, uno degli emoji, e sotto la firma di Roney. Mi piace immaginare che qualcuno glielo abbia tradotto in qualche modo, che più che l’evocazione della durezza difensiva di Davis l’avesse interessato quella delle asprezze della vita del jazzman… Adesso che sia lui, che Mulgrew, che Geri rimarranno per sempre più giovani di me, forse la cosa migliore è riproporvi quell’immagine che forse gli ha parlato più del testo. E’ un buon memento sui prezzi che costa questa musica, e che per parte nostra anche noi talvolta contribuiamo ad esigere. Guardiamola ogni tanto. Milton56

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L’indimenticabile  Dexter Gordon/Dale Turner in ‘Round’ Midnight’ di Bertrand Tavernier, forse IL film del jazz…

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