Aldo Bagnoni quartet – The Connection

Nel variegato mondo del jazz nazionale capita ogni tanto che un pugno di musicisti non particolarmente avvezzi alle luci principali dei media sfornino un album che indubbiamente possiede le stigmate del migliore, o comunque tra i migliori, dell’anno.

E’ successo lo scorso anno con l’album di Enrico Fazio Wabi Sabi, ed è il caso di questo The Connection di Aldo Bagnoni e dei suoi tre fedeli patners, che nel giro di pochi mesi ha racimolato un pugno di notevoli recensioni ad opera di firme illustri, oltre che il consenso di tutti coloro che hanno prestato orecchio alla musica.

Se la sensazione di essere sorpresi da una musica e da dei musicisti inaspettati è stupenda, immediatamente però si presenta il risvolto della medaglia. Leggevo una intervista di Marco Losavio al batterista e leader pugliese dove si dice che l’album è stato inciso senza la possibilità di provare dal vivo i brani, non solo, ma da che The Connection è in circolazione il gruppo ha avuto una sola possibilità di esibirsi dal vivo in un festival.

E qui veniamo al punto: il jazz italiano ha molti ottimi musicisti ma i media, quotidiani e televisioni, sembrano ignorare tutto ciò e si occupano esclusivamente di quei quattro o cinque nomi più conosciuti, spesso tra l’altro portatori di un prestigio jazzistico conquistato ormai decenni fa e magari al momento piuttosto latitante. Il problema non è purtroppo solo la mancanza di giornalisti preparati sullo specifico, ma investe coloro che in prima persona dovrebbero trainare le sorti del jazz italico: i direttori artistici.

Basta leggere i cartelloni di quel pugno di festival che nonostante la pandemia si arrischiano a proporre musica e cultura. La dicotomia è netta: a fronte dei piccoli e medi festival che si sforzano di produrre idee e innovazioni c’è la conservazione proposta in tutte le sue forme dai festival più prestigiosi ( “prestigiosi” probabilmente è un aggettivo ormai desueto…).

Naturalmente ognuno è giusto che faccia le scelte delle quali è più convinto, e che magari assicurano un ritorno economico assicurato, ma è evidente che se si insiste su deja vù chi ne fa le spese sono i musicisti stessi, e ovviamente il pubblico meno preparato che non avrà mai modo di conoscere nuove proposte.

aldo

Ma queste sono considerazioni che da tempo portiamo avanti qui su Tracce di Jazz e che leggo sempre più spesso sui social ad opera degli stessi musicisti, meglio quindi tornare all’album e alla musica in esso contenuta. La prima impressione all’ascolto è che si tratti di un gruppo ben rodato con molti concerti sulle spalle, poi, addentrandoci più in profondità nelle composizioni, colpisce lo spessore delle composizioni, mai ricalcanti sentieri facili e battuti.

Dopo ripetuti ascolti il brano che più mi ha intrigato è Cappello Eolico, una cavalcata di oltre sette minuti in una ambientazione che il piano elettrico contribuisce  a spostare stilisticamente indietro negli anni migliori del jazz rock, ma senza gli eccessi e le sbavature di quel periodo. Una fusion asciugata, riprogrammata e ripensata sugli sviluppi concettuali che la musica ha introdotto negli ultimi trent’anni.

Ogni brano ha la caratteristica di suonare “diverso” e contemporaneamente l’unità stilistica e compositiva è evidente. Critici e giornalisti hanno parlato di musica ancorata alla tradizione ma con l’impronta del jazz mediterraneo. Vero, vista anche la comune origine salentina del quartetto, ma io respiro più aromi e di diverse provenienze,  una mirabile fusione di stili, un equilibrio strumentale complessivo che rende l’ascolto una esperienza gratificante.

Inutile dire che, almeno qui nel profondo nord dove vivo, la presenza del quartetto di Aldo Bagnoni in un festival locale ha le stesse probabilità dell’atterraggio di un disco volante alla Casa Bianca, ma per fortuna esistono i supporti, il bistrattato compact e l’avara discoteca svedese Spotify, che ci permettono di assaporare uno dei migliori album di questo periodo tribolato e difficile.

 

Aldo Bagnoni: batteria, voce (brano n.10)
Emanuele Coluccia: sax tenore e soprano, pianoforte (brano n.10)
Mauro Tre: pianoforte, tastiere, synth
Giampaolo Laurentaci: contrabbasso

 

 

 

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