“La Musica Liquida è una cosa bellissima”. Articolo di fede inconfutabile, pena anatemi di misoneismo, sentimentalismo reazionario, luddismo digitale etc. Sta bene, vediamo la cosa dal lato pratico, evitando di addentrarci in ‘ dialoghi dei massimi sistemi’. Indubbiamente, disporre di musica in formato non fisico, archiviabile in oggetti dell’ingombro di un portachiavi è un grande vantaggio. Ancora più grande è quello di poterla far viaggiare al di sopra di frontiere, dogane, magazzini, e questo soprattutto nel momento attuale in cui il virus ha messo completamente al tappeto tutta la fragile e supponente logistica delocalizzata della Grande Globalizzazione. Sorvoliamo anche sulle gravi questioni dell’impatto di questi flussi di musica immateriale sulla condizione dei musicisti, particolarmente di quelli che non vivono a Bel Air, in villa con piscina e campo di golf incorporati (ma si preoccupano e si lamentano anche quelli, ‘anche i ricchi piangono’. Figuriamoci gli altri…). Occupiamoci del modo in cui la meraviglia tecnologica giunge a noi ed al modo in cui la viviamo. O meglio ci fa vivere…..
Nessuna tecnologia è neutrale, anzi, e con buona pace dei tecnofili entusiasti, tutte incorporano in sé una consistente dose di ‘ideologico quotidiano’, come recitava una bella rubrica radiofonica anni fa, andandone a caccia nelle pieghe della quotidianità più banale ed insospettabile (apparentemente). Ad esempio, quando ci rivolgiamo ai nostri dispositivi che custodiscono la magica ‘musica liquida’, come la scegliamo?

Nel migliore dei casi, avremo un display più o meno grande che ci mostra l’ “autore” dell’album ed il suo titolo; il tutto semprechè il povero disco non sia stato tritato in qualche playlist o compilation e ridotto ad una manciata di brani isolati e sparpagliati. A questo punto due sono le ipotesi: o stiamo cercando qualcosa che già ben conosciamo per altra via, ed allora poco male. Ma se viceversa ci imbattiamo in qualcosa di nuovo che ci incuriosisce, la cosa è ben diversa. Si spera che ciò avvenga in occasioni di ascolti disimpegnati, ‘con un’orecchia sola’, come dico io. Ma anche in questi casi, anzi vorrei dire soprattutto in questi, è possibile l’improvvisa folgorazione, il ‘colpo di fulmine’. Mentre siamo lì che spiattelliamo, ecco che ci si rivela un bell’assolo di piano, un arrangiamento orchestrale aereo e raffinato. Scatta la curiosità, vogliamo trovare il filo d’Arianna che consenta di salvare dal caos quotidiano questo momento di emozione per ritrovarlo ed approfondirlo. Inutile scrutare il nostro lettore, muto idolo tecnologico: vano prendersela con lui, il problema è a monte.
La struttura dei file musicali non è stata pensata (ed in ogni caso non viene di fatto utilizzata) per trasmettere informazioni più ampie di quelle richieste per la musica di consumo: nome del divo di turno, titolo dell’hit di una stagione. Non è solo un problema delle piattaforme dello streaming, definitivamente ed irrevocabilmente strutturate così, impensabile ipotizzare trasformazioni in corsa: sarebbe come pensare di smontare e ricostruire un aereo in volo. Anche la massima parte dei file musicali nella diretta disponibilità degli utilizzatori non contengono informazioni circa date e luogo di registrazione, e soprattutto le formazioni dei musicisti che vi sono coinvolte. Noncuranza dei fornitori di ‘contenuti’ (paroloide orwelliano quantomai rivelatore…)? No, è proprio un problema tecnico, strutturale: nel format dei file audio di più larga circolazione mancano campi dedicati a queste informazioni. Inevitabili effetti collaterali del progresso tecnico? Niente affatto, nessun ‘fato tecnologico’ cui elevare sacrifici. All’alba dell’era CD era stato messo a punto un suo formato che consentiva di registrare e mostrare all’utilizzatore finale un pacchetto di informazioni abbastanza ampio: non se ne fece nulla. Fretta di lanciare il nuovo formato, difficoltà di inserire nei primi costosi lettori dei display adeguati alla visualizzazione, ed infine il fatto che il cd arrivava corredato di un bel libretto che sotto il profilo informativo non aveva niente da invidiare alle cover degli LP.

Era stata segnata una rotta per il transatlantico dell’industria discografica mondiale. E si sa, i transatlantici non gradiscono manovre troppo brusche e radicali, come ben sanno dalle parti dell’Isola del Giglio. E quindi anche i formati della musica liquida hanno ereditato questa sommarietà, del resto funzionale alle esigenze della musica di consumo. Le musiche di nicchia non meritano investimenti volti a dargli piattaforme che ne rispettino le caratteristiche peculiari.
Ma torniamo alla nostra folgorazione sulla via del tinello. Il più delle volte ci godremo il momento, rinviando a tempi più propizi l’approfondimento delle curiosità. Il che è come dire ‘sine die’, almeno nella stragrande maggioranza dei casi. Ed ecco il jazz, musica collettiva sin nel suo DNA, ridotto agli schemi della musica di consumo. A farne le spese è soprattutto il contributo dei sidemen, che così vengono pressocchè ineluttabilmente respinti nell’ombra. Si va quindi verso una visione ‘verticale’ e leaderistica di una musica che non lo è affatto, anzi che non può esserlo a pena di metter in questione la sua stessa esistenza. Il Coltrane che suona con Red Garland non è quello che si ascolterà con McCoy Tyner, e men che meno quello a fianco di Rashied Alì. C’è poi il rischio non trascurabile di crescere nuove leve di ascoltatori in questa visione divistico-leaderistica che li porterà a credere ad una nascita per partenogenesi delle personalità creative, finendo per ricalcare i più logori e sterili miti romantici (che molto poco hanno giovato alla musica accademica europea). Intendiamoci, non si sta parlando di prospettive futuribili ed ipotetiche: queste derive sono già chiaramente visibili oggi, basta sfogliare le pagine di alcuni programmi di festival. Per tacere del culto della personalità che circonda alcuni protagonisti di primo piano della pur ristretta scena jazzistica odierna, ‘acclamati a prescindere’ come il Nerone di Petrolini. Il rischio di vedere sprofondare anche il jazz nella palude delle anonime e seriali ‘sonorizzazioni’ che ci circondano c’è ed è forte.
Che fare? Una proposta minima è doverosa nei riguardi di quella pattuglia disposta ad un po’ di ‘resistenza umana’ contro la fagocitazione omologante di questa musica sopravvissuta a cent’anni di avversità e discriminazioni. Ahimè, soluzioni facili e comode non ce ne sono: fare secessione dal nostro ‘brave new world’ comporta qualche prezzo. Non sto nemmeno a propagandare il mio patetico rimedio personale (una cartella nel telefonino con tutte le copertine degli album ‘liquidi’, almeno quelle con informazioni utili e non solo graziose miniature), comporta un lavoro certosino di copia&incolla già pesante per un jazz addict all’ultimo stadio come me. Mi permetto allora di rammentare un pezzo in cui venivano indicate delle risorse web in grado di puntellare le infinite lacune della musica liquida. In ogni caso è la ‘forma mentis’ con cui ci rivolgiamo alla musica che risulta decisiva: magari è il caso di fare una scelta iniziale un po’ informata prima di ascoltare. E soprattutto resistere alla deleteria tentazione dello ‘zapping’ musicale reso ora possibile dalle nuove tecnologie di fruizione: premia solo musiche ogm che tendono alla lunga ad un tedioso livellamento, con tutti i conseguenti effetti di crescente disamore verso l’ascolto, uno in più che si somma a tutti gli altri che ci perseguitano di questi tempi: non mi pare proprio il caso. Milton56
L’immagine di testa ritrae uno splendido album, vittima della censura di mercato come tutto il bel catalogo della giapponese DJW cui appartiene. 1991, “Death of a Sideman”, un formidabile quartetto di David Murray (Dave Burrell, Fred Hopkins, Ed Blackwell) ospita la tromba di Bobby Bradford. Un’elegia dedicata ai molti ‘unsung hero’ del jazz