Anche a Chernobyl qualcuno stava ascoltando musica…
Seguendo il consueto copione, mi ritrovo a commentare considerazioni svolte dall’amico Rob73.
Il tema è quello dell’incerto e nebuloso futuro della musica registrata, in qualsiasi formato, e dei suoi canali di distribuzione. Qualcuno obietterà: “Ma è un discorso che riguarda soprattutto gli addetti ai lavori, un po’ fuor di luogo in un blog di fans che parlano ad altri appassionati…”. Ed invece no, dico io, per almeno due motivi. Premetto che andrò un po’ per le spicce, anche per non annoiare: se qualche affermazione risulterà assiomatica od apodittica, in fondo all’articolo c’è lo spazio per i commenti, sede ideale per approfondire, dibattere etc.
Il primo motivo è molto semplice è radicale: il jazz con relative ramificazioni scaturite dallo stesso non può materialmente esistere e men che mai evolversi in assenza delle registrazioni. Questo è tanto più vero alle nostre latitudini, dove luoghi ed occasioni di ascolto dal vivo sono radi e sporadici.
Il secondo ci coinvolge tutti come fruitori di musica: i nostri comportamenti a riguardo non sono affatto neutrali nello strutturarsi del mercato della stessa. Certo in esso ci sono posizioni dominanti, oggi quasi dei monopoli generati dall’affacciarsi di nuove tecnologie, prontamente strumentalizzate. Ma anche questi colossi non possono totalmente prescindere da orientamento e comportamenti del pubblico, che deve cominciare ad esser consapevole del potere che può esercitare tramite atteggiamenti ragionati e responsabili.
Iniziamo sgombrando il campo da un idolo polemico: quello del ruolo delle c.d. ‘majors discografiche’ ormai ridotte a solo due o tre conglomerati multinazionali di dimensioni planetarie. Ebbene, questi titani della comunicazione e dell’entertainment di fatto non si occupano più del nostro jazz ormai da anni, rinunciando a considerazioni di prestigio e di presidio anche di nicchie marginali di mercato. Non sono quindi più loro le ‘controparti’ di musicisti ed appassionati di musica, anche se loro miopi comportamenti passati hanno determinato la situazione attuale.
I veri ‘padroni della musica’ oggi sono i giganti dello streaming (Spotify in testa) che predominano sotto molti aspetti: dall’enorme ricchezza del catalogo sino ad arrivare alle dimensioni ormai gigantesche della platea degli abbonati (ed è questo il loro cruciale punto di forza). Il Web però è il regno dell’impermanenza e della transitorietà: molti colossi che sembravano destinati a sfidare i decenni si sono virtualmente dissolti nello spazio di un mattino, soprattutto in corrispondenza di balzi tecnologici che hanno letteralmente cancellato il loro spazio di mercato. Le prospettive di crescita quantitativa indefinita che hanno sinora reso sopportabili per gli investitori le ingenti e sistematiche perdite di esercizio accumulate da queste società stanno lentamente affievolendosi: nel web infatti stanno rapidamente risorgendo quei muri che ci eravamo illusi di aver abbattuto in real life, si pensi solo ai progetti di cyberspazio chiuso e sorvegliabile che Russia e Cina stanno già realizzando.
In soldoni: si avvicina il momento in cui l’immenso patrimonio di contenuti acquisiti e soprattutto di centinaia di milioni di utenti fidelizzati ed ormai dipendenti dovranno esser ‘realizzati’ sul mercato. Il compratore più ovvio è da ricercarsi nei grandi kombinat della comunicazione che conoscerebbero così un ritorno. Ed intendiamoci bene: il business non sarebbe solo quello di vendere altra musica, ma anche quello di acquisire montagne di preziosissimi ‘big data’ che attraverso i comportamenti e gusti musicali possono rivelare moltissimo della generale psicologia degli utenti. Ma anche mettendo tra parentesi queste prospettive orwelliane e limitandoci al nostro banale ‘particulare’ di ascoltatori, temo che ci si debba preparare a breve a dare l’addio alla pacchia di ‘tutta la musica del mondo a portata di dito quando vuoi, dove vuoi e per poco più del prezzo di un cocktail in un locale di tendenza’.
E qui arriviamo ad un punto cruciale: una musica che non ha più un prezzo (oppure ne ha uno del tutto risibile) ha finito di esser un oggetto di desiderio e quindi non ha più valore per il suo pubblico. Ne consegue la bulimia quantitativa nei consumi musicali, alimentata oltre che dallo streaming da tutta la massa di musica liberamente disponibile in Rete (salvo rischi di sicurezza informatica e di tutela dei dati personali). Non mi sto a ripetere sull’opportunità invece di ascoltare di meno, in modo selettivo e più in profondità.
Parallelamente a questo, mi sembra di notare da parte degli stessi musicisti una corrispondente sottostima dell’album, concepito quasi come un oggetto promozionale ‘a perdere’, confezionato quindi soprattutto per apparire e soprattutto prodotto a getto continuo, con tutti connessi rischi di banalizzazione e superficialità.
Va tenuto ben presente che l’attività concertistica non potrà mai soppiantare la musica registrata sia sotto il profilo del rapporto con il pubblico che del ritorno economico: soprattutto da noi, il circuito musicale ‘live’ ha dimensioni minime, offre rare occasioni di lavoro e soprattutto di contatto con gli ascoltatori. L’album rimane quindi insostituibile ai fini della documentazione compiuta, mediata e controllata della propria arte. Il tutto per tacer di quanto ci ha insegnato la pandemia sulla fragilità e vulnerabilità dei luoghi della cultura: e sulla loro ripresa gravano dubbi ed incognite di non poco conto.
Sempre per i musicisti: guardarsi dall’illusione fallace dell’autoproduzione. Il musicista si deve concentrare sulla creazione, e non disperdere energie in attività di produzione e tecniche per le quali quasi sempre ha minima competenza e soprattutto attitudine. Le microetichette ‘one man show’ sono destinate a diventare la tomba di tanta musica, e comunque saranno prede ideali per i giganti dello streaming o per le società finanziarie che stanno già facendo incetta di interi cataloghi in blocco (ovviamente a prezzi stracciati, quando arriveranno a questi livelli).

Alla fine la zattera della Medusa a cui possono aggrapparsi i musicisti per la sopravvivenza ed un pubblico desideroso di un’esperienza di ascolto di qualità, selezionato e non bulimico, è quella di etichette indipendenti fortemente motivate a promuovere una musica che risponda a caratteristiche ben definite e riconoscibili, tali da consentirgli di vantare una loro immagine e ‘marchio’ che gli dia un certo potere contrattuale nell’offrire una nicchia sia pure limitata, ma ben caratterizzata e radicata, ai grandi colossi della distribuzione, fisica o digitale che sia. Ce ne sono, anche nella nostra remota provincia dell’Impero, ma in questo frangente le vedo in grande affanno e difficoltà, anche sotto il profilo creativo, e non solo sotto quello gestionale. Io evito di scaricare ad ufo loro album, e quanto allo streaming, cerco nel mio piccolo di ‘spingerle’ con ascolti ripetuti ed inserimento dei loro album ed artisti nelle librerie dei Preferiti.
Bandcamp è idea meritoria, ma non c’è chi non veda come essa venga in qualche modo ‘snobbata’ da musicisti e labels che ritengono di aver già uno standing riconosciuto: a parte il fatto che anche volendolo utilizzare come uno strumento di esplorazione, anch’esso pone gli stessi problemi di babelicità, assenza di selettività e di orientamento che affliggono il mondo dello streaming. In una parola: su Bandcamp si trova di fatto solo quello che già si sa di voler comprare.
Concludendo: se non vogliamo un futuro di musica piatta ed omologata, una sorta di ‘sonorizzazione planetaria’ incapace di trasmettere qualsiasi emozione, selezioniamo ed orientiamo i nostri consumi musicali verso chi propone cose meditate ed originali, e soprattutto compriamo i suoi album. Magari meno, ma ben scelti e capaci di durare a lungo sui nostri scaffali e soprattutto nel nostro immaginario. Lo streaming ad un cent al colpo od i ‘download birichini’ riserviamoli agli album fuori catalogo ed ormai privi di un sostanziale e legittimo titolare di diritti che abbia effettivamente contribuito alla loro produzione e lancio (l’accaparramento e la tesaurizzazione speculativa di prodotti culturali da parte di remoti epigoni – fenomeno non infrequente – non ha invece diritto ad alcuna tutela e rispetto). Milton56
“A chi possiede un disco”, un reperto ornettiano del 1960 riemerso dopo un quindicennio, nel frattempo era già diventato fantomatico come lo Yeti od il Mostro di Loch Ness. Coleman ha avuto sempre relazioni problematiche e contrastate con il mondo discografico sino agli ultimi giorni della sua vita: resta il fatto che le sue cose migliori le hanno prodotte grandi etichette. Qui con l’indimenticabile quartetto con Don Cherry, Charlie Haden ed Ed Blackwell