In questa musica a volte si dà il caso che tra alcuni musicisti e certi palchi ed il loro pubblico si crei un rapporto speciale. Ed è proprio una di queste ‘relazioni magiche’ che ho visto all’opera il 14 luglio scorso a S.Giuliana a Perugia. E’ qui che un giovanissimo Brad Meldhau ha debuttato sulla scena internazionale ormai decenni fa, in tempi ben altrimenti felici e caldi per il festival umbro (che nonostante una certa atmosfera luttuosa che lo ha accompagnato in quest’anno tribolato ha invece mandato in scena un’edizione di parecchie spanne superiore a quelle degli ultimi anni sotto il profilo della qualità artistica e della coerenza con le sue radici).

Ho avuto la fortuna di ascoltare questo trio in diverse occasioni, compresa una data in cui palesemente attraversava un momento di grazia: per questo mi accingevo a ritrovare una formula che per me ormai costituisce il canone del jazz contemporaneo. Ed invece mi ritrovato preso di sorpresa da una serata straordinaria che rimarrà tra le pochissime pagine del mio personale album dei ricordi.
In una laconica intervista concessa settimane fa a ‘La Lettura’, interrogato sui prossimi impegni sui palchi italiani, il nostro rispose semplicemente: “Non vedo l’ora”. E’ stato di parola: il concerto inizia subito con lo scatto bruciante del suo ‘Aquaman’. Si avverte subito un Brad diverso, direi prosciugato, a tratti tagliente. Colpisce una rinunzia quasi ascetica al colore, che pur con misura risultava caratteristico del suo stile consolidato. Il fraseggio è tutto giocato sul registro medio dello strumento, sgranato in note brevissime e fittissime: palesemente il riflettore è puntato sull’incessante scomposizione e rielaborazione dei materiali.

I quali vengono dalle fonti più diverse, a testimonianza della ricchezza del mondo musicale di Meldhau, che ha una rara capacità di trasformarli in autentici standard contemporanei, capaci di una fascinazione magnetica su chi se li porta dentro da lontani anni verdi. E’ il caso di ‘Friends’ del ‘Beach Boy’ Brian Wilson, che Brad rilegge in un evidente registro elegiaco, insinuando nella solare epopea giovanile del song delle sottili, ma insistenti venature di dissonanza che generano la vertigine di un presagio. Del resto la vita e la storia non sono state gentili con i surfisti di allora, come ci ricorda il malinconico epilogo di ‘Un Mercoledì da Leoni’ di Milius.

…. a beneficio delle lettrici (ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti..)
Anche sull’ex golden boy del pianismo jazz è passata molta vita. E parecchia non facile, anche. E ciò si riflette trasparentemente nella sua musica, in cui tutto è ormai essenziale, nemmeno il minimo dettaglio è rinunziabile. Quello che resiste indomito al tempo è il nervoso dinamismo, capace di alimentare progressioni incalzanti ed inarrestabili che non conoscono alcun momento di tregua od anche solo di rallentamento. In questa spinta incessante, che impone poi cesure fulminee ed inesplicabili come i gesti dei maestri zen, Brad ha qualcosa in comune con un altro grande della tastiera, Vijay Iyer (anche lui nel mio personale Gotha).
Ed infatti in un attimo si passa dalle assolate spiagge californiane (allora non piagate da siccità ed incendi, erano ancora la terra promessa dei sognatori) ad una versione nervosa e funambolica di un brano parkeriano (annunziato in seguito, ma ahimè proprio qui l’inappuntabile pronunzia ‘new england’ di Brad conosce una momentanea smagliatura), del tutto trasfigurato prima da un pulsante ed avventuroso solo del basso di Larry Grenadier, e poi da un paio di minuti magici in cui due indipendenti e compiute linee improvvisate si intrecciano, si scontrano, tornano a divergere in un gioco vertiginoso: l’occhio corre d’istinto sul palco alla ricerca del secondo pianista, che però non c’è, è sempre e solo lui, Brad. Il concentrato silenzio della platea viene sommerso dall’onda di un’ovazione che riempie totalmente l’oceanico parterre di S.Giuliana.
Segue un ‘Twiggy’, dal book personale da cui il pianista attinge con molta misura. E qui il dialogo tra gli arabeschi melodici sempre più astratti di Meldhau e la batteria danzante e piena di tocchi di colore di Jeff Ballard diventa aereo e leggero come raramente è accaduto in passato. Ovviamente moltissimo è sulle spalle di quel magnifico musicista che è Larry Grenadier, la vera pietra angolare di quello che si avvia a diventare IL Trio con l’articolo determinativo degli anni ’10. Una definizione vivente del jazz come ‘democrazia perfetta’, tanto cara a Rava (mi raccomando, tieni duro Enrico….).
Conoscendo il debole dei jazzmen di razza per le allusioni aforistiche, dubito che la scelta di ‘Come Rain or come Shine’ di Harold Arlen non portasse con sé un preciso riferimento a questi giorni confusi e spiazzanti che stiamo vivendo: nonostante il consumato professionismo con cui il nostro ha accuratamente impaginato un concerto a cui con tutta evidenza teneva moltissimo, anche qui il purosangue rompe il trotto e si lancia in una lunga, entusiasmante scomposizione caleidoscopica della ballad che sembra doversi spingere all’infinito. C’è ancora posto per una sofisticata, ma più asciutta resa della bossanova di Toninho Horta e poi dopo oltre 80 minuti il concerto volge al termine, seguito da lunghi minuti di applausi del pubblico che riempiva l’immensa platea di S.Giuliana (utile promemoria del fatto che si può farlo anche senza ricorrere ai lustrini della celebrità mediatica, ma semplicemente con la grande musica di artisti le mille miglia distanti dal glamour e dall’autopromozione, come nel caso di specie).
A chiusura di un asciutto saluto al pubblico (in parte in un diligente italiano….), Meldhau ha detto senza alcuna piaggeria: “Ci siete mancati, abbiamo bisogno di voi. Come voi avete bisogno della musica”, l’epilogo perfetto di un concerto che ha mostrato un volto di questo splendido trio purtroppo poco rappresentato nella loro pur vasta discografia. Milton56
Una settimana dopo a Sète, in Occitania. La ‘Twiggy’ di Perugia era anche più nervosa e scattante…. (fate presto a guardarlo, non so quanto dura online……)
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