Mancavo da Bergamo dal 2019, ultima edizione del Festival ante-covid. Ritornarci mi ha dato una strana sensazione, inutile far finta di aver dimenticato la famosa foto notturna che ha fatto il giro del mondo.
Devo dire che appena visto l’annunzio di questa ‘edizione straordinaria’, ho pensato subito che bisognava esserci comunque. Siamo stati in molti a pensarlo…. Il programma annunziato ha fatto poi il resto. C’è chi lo ha criticato senza peraltro tener conto delle mille alee e limitazioni con cui deve fare i conti chi organizza la musica in questi giorni. La vicenda del forfait di Kurt Elling – una scelta alquanto caratterizzante del programma – sta lì a dimostrarlo: un episodio a mio avviso decisamente sgradevole e che offusca la figura del musicista, non si dà disdetta tre giorni prima del concerto mettendo avanti motivazioni conosciute e valutabili anche al momento dell’ingaggio.
La Lydian a ranghi completi e con David Murray (ormai di casa già nel 2018): qui ci si cimenta con Ellington – Strayhorn….
Ma il determinato staff di Maria Pia De Vito ha tenuto botta ed è riuscito nella problematica impresa di colmare il vuoto con una proposta di qualità. A questo proposito, però, occorre anche ricordare la generosità di Riccardo Brazzale e della sua Lydian Sound Orchestra, che hanno accettato il rischio non indifferente di salire sul palco praticamente senza preavviso con una formazione che prevedeva sostituzioni in ruoli importanti. Le big band non sono fatte per esser ‘paracadutate’ alla brava, soprattutto le nostre che non godono certo del rodaggio di un’attività continua ed assidua come quelle americane di decenni fa. A mio avviso la Lydian in ‘formato compatto’ si è disimpegnata piuttosto bene date le circostanze. Rispetto al mio termine di paragone (la performance di Correggio di cui vi ho parlato qui), ha anche osato l’inserimento di qualche numero diverso, come una medley monkiana e l’ ‘African Flower’ tratto da quella mirabilia che è ‘Money Jungle’ (titolo quanto mai evocativo..) che vide la congiunzione astrale di orbite remote tra loro come quelle di Ellington, Mingus e Roach. A proposito del grande Max, va detto che della partita era anche Hamid Drake, che a mio avviso va ritenuto il suo discendente più diretto e legittimo. Il drumming danzante e pieno di colore di Drake sulla carta non sembrerebbe quello più idoneo all’ambito di un grande organico, che sul piano ritmico si vuole affamato di potenza e di assertività: eppure la batteria di Hamid ha dato un notevole tocco di estro al suono orchestrale, emergendo spontaneamente e senza forzature in ogni momento della performance, un po’ come la schiuma sulla cresta delle onde. Il sodalizio con David Murray è invece molto più rodato e sperimentato: rispetto all’occasione emiliana il nostro è apparso più meditativo ed inserito nel discorso orchestrale, pur non rinunziando a dar fondo a tutto il suo bagaglio di consumato ed estroverso solista. Anche in questa occasione il suo prediletto ‘Chelsea Bridge’ gli ha offerto un’occasione per un solo affabulatorio ed in un crescendo passionale e travolgente. Forse sarà da mettere in conto alla particolarità della situazione, ma si è notato un gesto direttoriale di Brazzale particolarmente incisivo ed estroso, che mirava quasi a ‘scolpire’ il suono orchestrale.
In un festival che voleva interpretare una serena volontà di ritorno alla vita non poteva esser più felice l’inserimento di Roberto Ottaviano con il suo ‘Eternal Love’. Questa formazione è strutturalmente ‘a geometria variabile’, e stavolta è apparsa nella sua versione italiana, con Giorgio Pacorig al posto di Alexander Hawkins al piano. Anche qui ‘repetita iuvant’, vi avevo già riferito di Eternal Love a Ravenna, la scorsa estate. Un pianista diverso fa certo una bella differenza in un quintetto: mentre Hawkins non rinunciava a delle discrete sortite destabilizzanti, al punto di farmelo definire una sorta di ‘agente provocatore’ travestito da accompagnatore, Pacorig ha mostrato tutt’altra inclinazione sia nel supporto al gruppo che in ampii momenti solistici. Il suo è un pianismo più lirico e con una vena di cantabilità che asseconda maggiormente il calore e la passionalità della musica di Eternal Love, a cominciare dal soprano fluido e di trascinante eloquenza di Ottaviano; nei momenti solistici invece propende verso una meditativa e densa elaborazione. Il compito di increspare un po’ le acque rimane sulle spalle di Marco Colonna, anche se va detto che l’affiancamento ad Ottaviano fa emergere anche dai suoi clarinetti una vena melodica ed affabulatoria più riposta in altre sue occasioni. Comunque tra unisoni e controcanti la frontline Ottaviano – Colonna è una delle cose più entusiasmanti ed emozionanti della nostra scena odierna. Il basso assertivo e nitido di Mayer (notevoli i suoi interventi solistici) e la batteria leggera, sottile ed onnipresente di Zeno de Rossi hanno dato ali solide e sicure ai voli a lungo raggio degli altri Eternal.
“Oggi si dice spesso: la Bellezza ci salverà. Ma la Bellezza dobbiamo evocarla, nutrirla, testimoniarla ogni giorno in quello che facciamo, guardando indietro verso chi lo ha fatto prima di noi, soprattutto verso quelli che sono stati dimenticati”. Cito a memoria Ottaviano, uno dei pochi che sa dire sul palco cose che non suonano come ovvietà compiacenti, ma che spesso sanno di carezza contropelo come questa. La musica sua e degli Eternal Love è proprio un bell’esempio di applicazione militante di questa massima, tanto più ammirevole in quanto piuttosto solitaria. Stay tuned, perché vi devo ancora raccontare di una serata magica….. Milton56
Eternal Love con Pacorig a Palermo nel 2018. Video un po’ artigianale, ma la musica arriva bene